Cara Ministra, hai mortificato la mia professionalità e pianificato d’autorità il mio futuro! Lettera aperta a Gelmini
Data: Venerdì, 22 luglio 2011 ore 12:39:24 CEST
Argomento: Opinioni


La notizia del pensionamento dapprima arriva a intermittenza, con varie smentite da parte del Provveditorato, così ancora chiamiamo i CSA, poi se ne ha certezza. Significa che insegno in una graduatoria con esubero di docenti e che pertanto per me si applica la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro – una sorta di licenziamento – senza diritto a differimento al fine di maturare il requisito che consenta l’accesso all’ultimo scatto stipendiale (che avrei maturato a Dicembre di questo stesso 2011). Con solerzia degna di più nobile causa il Ministero considera che arriverò al 31 Agosto a quarant’anni di anzianità contributiva e decreta il mio pensionamento a decorrere del primo Settembre 2011 stabilendo così una palese disparità di trattamento tra insegnanti che hanno diritto alla permanenza in servizio (lavorano su graduatorie e non in esubero) ed altri che risultano come me “esuberati” (graduatoria di lettere al liceo).
L’ esubero sbandierato mi appare così il frutto avvelenato della riforma della scuola secondaria superiore alla sua “prova d’ingresso”, un modo “tecnico” per nascondere l’enormità dei tagli che la scuola pubblica italiana ha subito e continuerà negli anni a venire a sopportare.
Devo andare in pensione prima di avere maturato l’intera carriera retributiva. Un danno economico e una beffa, ma soprattutto una mortificazione professionale.
I quasi quarant’anni di carriera contributiva sono frutto anche del riscatto della carriera universitaria fatto a tempo debito. Quindi pago all’inizio per il riscatto della carriera e vengo a perdere ora alla fine. Ma non è tutto, è la questione dell’esubero artificialmente creato che mi brucia, l’essere messa alla porta quando avrei avuto per legge ancora la possibilità di alcuni anni di insegnamento, e la voglia di farlo. Diciamolo, insegnare mi piace e credo di saperlo fare. La prospettiva di un esaurimento della mia professionalità, così si è espresso il giudice del lavoro in qualche caso analogo al mio, mi sembra davvero umiliante.
E’ vero appartengo alla tanto discussa generazione degli insegnanti laureati nella temperie del sessantotto; ma i denigratori non sanno (per ignoranza) che questa generazione frequentò un’università seria con maestri di valore. Qui a Catania per esempio alla Facoltà di Lettere si studiava con Carlo Muscetta, Gastone Manacorda, Nicola Mineo, Giuseppe Giarrizzo e tanti altri ancora. Studiosi di fama internazionale di grande impegno e puntualità anche nell’insegnamento. Ricordo padre Corallo, un salesiano di notevole preparazione e disponibilità che insegnava pedagogia; fu il mio correlatore, relatore Mineo. Ammessa alla compilazione della tesi di letteratura italiana dopo aver superato la prova scritta di ammissione, come richiesto da Muscetta. Altro che università facile!
Poi il corso abilitante e finalmente il concorso; una prova su scala nazionale con seicentomila domande su ventitremila posti che vide convergere su Roma masse di giovani laureati. Fui ammessa agli orali con pieni voti. La partenza per l’esame finale nella sede di viale Trastevere del Ministero della (allora ) Pubblica istruzione, appesantiti da grandi valigie piene di libri: bisognava infatti portare i classici, esibirli in sede d’esame e naturalmente dimostrare di conoscerli. Passai con il massimo dei voti e mi classificai al settantacinquesimo posto nella graduatoria nazionale di merito; davanti a me erano solo quelli che avevano maturato punteggi nel servizio o con altri titoli oltre il concorso. La celata soddisfazione di mio padre: hai fatto il tuo dovere. Poi la scelta della sede. Andava bene Acireale, più vicina a Catania; e poi un Istituto tecnico. “Ma come, tu con questo punteggio e con i tuoi studi non scegli il liceo?” Eravamo appunto sessantottini e pensavano a una scuola che offrisse opportunità non solo ai ceti privilegiati (scuola di qualità e di massa era il nostro progetto) e gli Istituti tecnici consentivano meglio il dialogo con fasce sociali nuove. La scelta di Acireale fu poi particolarmente felice, era una bella scuola con molti bravi colleghi e con un preside sensibile e accogliente. Lo ricordo con gratitudine. Ebbi anche l’occasione di seguire alcune classi dall’inizio alla fine per tutto il quinquennio, un’esperienza formativa importante per me e per gli alunni.

Quando potei chiedere il trasferimento a Catania andai al Gemmellaro, un altro Istituto tecnico, ma con problemi molto più complicati. Questa antica e prestigiosa scuola catanese si trova infatti in uno dei quartieri difficili della città. Lì negli anni ottanta e novanta si poté misurare la grande difficoltà della scuola di fronte ai processi di trasformazione sociale. L’Istituto era frequentato da ceti sociali che per la prima volta avevano accesso all’istruzione superiore, una grande occasione di democrazia alla quale le strutture scolastiche si presentavano impreparate. Spesso infatti i ragazzi arrivavano con scarse capacità di espressione in italiano, un retaggio delle loro storie famigliari a cui la scuola avrebbe dovuto rispondere con massicce dosi di corsi di scrittura e di lettura. Al Gemmellaro si misurava anche la trasformazione sociale da un altro punto di vista: molti ragazzi vivevano in ambiti famigliari poco coesi, in cui la fine di una tradizionale autorità genitoriale non aveva trovato un sostitutivo. C’era di tutto, dal bullismo alla spicciola maleducazione talvolta sostenuta da genitori che ovviavano alla scarsa autorevolezza facendosi difensori ad oltranza delle prodezze dei loro figli. Talvolta invece il ruolo genitoriale veniva “supplito” da fidanzati, che avrebbero voluto ottenere dall’insegnante rassicurazioni sul comportamento della fidanzata a scuola, ma non riguardo al profitto scolastico di cui non gli importava nulla, ma alla fedeltà chiedendo magari un supplemento di controllo.
Era ogni giorno una lotta, resa ancora più difficile dalla scarsa considerazione sociale di cui gli insegnanti cominciavano a godere in quegli anni; se ne percepiva subito il senso nelle obiezioni di alcuni alunni e genitori: “ma lei che mi rappresenta con questo stipendio!” Le occasioni di facile arricchimento non passavano certo per le aule scolastiche. Eppure al Gemmellaro c’erano dei colleghi bravissimi, la generazione entrata con i concorsi; molti di loro erano lì perché avevano condiviso quella scelta degli Istituti tecnici o professionali. Alla fine degli anni novanta ci fu una diaspora, pensionamenti e trasferimenti, per cui presi la decisione di chiedere  anch’io il trasferimento in un’altra sede. Fu il liceo scientifico Boggio Lera.
Un grande edificio antico posto nel centro storico della città con una utenza mista tipica della popolazione dei centri storici con in più molti immigrati. Pertanto senza velleità di scuola d’élite. Andava bene per me. Alle velleità supplisce la qualità del suo corpo insegnante, la sua organizzazione, l’apertura verso la città.  Sono tornata dopo tanti anni lì dove avevo cominciato da supplente e dove avevo sperimentato la fatica e insieme la bellezza del lavoro di insegnante. Reggere il confronto con quell’entusiasmo, con quella me stessa di allora è stata una sfida difficile. E credo riuscita. Così come rinsaldare legami antichi e crearne di nuovi a partire da idee, gusti, preferenze, scelte, in un concreto e quotidiano fare scuola. Giorno dopo giorno fino alla non scelta del forzoso collocamento a riposo.
P. S. Anche se sono convinta che il rispetto dei diritti soggettivi sia condizione della democrazia, avrei capito che mi fosse stato richiesto di sacrificare qualcosa per costruire un nuovo patto generazionale, garanzia di futuro.
La scuola dei tagli e degli esuberi non va certo in questa direzione.


Donata Bellante
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