Esami di stato 2011: un modello da ripensare
Data: Mercoledì, 06 luglio 2011 ore 17:48:12 CEST Argomento: Opinioni
Ormai, con lo
svolgimento dei colloqui, anche l’Esame di stato 2011 si avvia ad
essere archiviato.
Lasciando dietro di sé polemiche antiche e nuove e qualche speranza
che, finalmente stanchi e anche un po’ disgustati (ovviamente tralascio
le eccezioni, che non fanno testo), si tenda a cambiar pagina.
Le riflessioni che vorrei svolgere riguardano tre nodi scoperti
dell’attuale modello: la prima e la terza prova scritta e i criteri di
ammissione agli esami.
Un approfondimento richiederebbe anche il colloquio conclusivo: ma si
tratta di questione che ha più a che fare con i problemi di gestione,
che, a loro volta, rinviano a quelli della professionalità docente. E
più precisamente a quegli aspetti del profilo che vanno sotto le
categorie del ‘coordinamento’ e del ‘lavorare in team’, ma anche
dell’’ascolto’ e del ‘relazionarsi in una logica di reciprocità’.
Aspetti problematici su cui una formazione solida e diffusa potrebbe
costituire leva importante di miglioramento. Solo che se ne avesse la
consapevolezza e si prevedessero investimenti. Ma, almeno su questi
ultimi, sembra di capire - dal vento che tira -, “che non è cosa”.
Sulla prova di “Italiano”
Continuo a non capire, dopo tanti anni di esperienze sul campo, qual è
il senso della prima prova scritta, così come è strutturata
nell’attuale modello.
La norma le attribuisce il compito di “accertare la padronanza della
lingua italiana …, nonché le capacità espressive, logico-linguistiche e
critiche del candidato”.
Eppure, a leggere le tracce che si propongono ogni anno non riesci a
capire dove si voglia andare a parare e quindi cosa si voglia realmente
accertare. E ciò a prescindere dai contenuti proposti.
Che appaiono sempre di più ottimi espedienti, almeno nella maggioranza
dei casi, per arrampicature sui vetri di varia caratura e rischiosità.
Quest’anno si sono preferiti, come si sa, i vetri di ‘Passione, odio,
amore’; e del ‘Siamo cosa mangiamo’, con tanto di punto interrogativo”,
ma anche di ‘Destra e sinistra’. Per non citare il tema di argomento
storico in cui si chiede agli studenti di “riflettere”, nientemeno, sul
concetto di “Secolo breve” di Hobsbawm e di “valutarne criticamente la
periodizzazione proposta e soffermarsi sugli argomenti
caratterizzanti”. Studenti che, per diverse ragioni, si sono ben
guardati, anche solo per un attimo, dal prendere tale traccia in
considerazione . (Ci sono state eccezioni, anche lodevoli, ma in
percentuali che neanche lo share dell’ultima impresa televisiva di
Vittorio Sgarbi…!).
Ad ogni buon conto, ha senso – c’è da chiedersi – in un esame di stato
a conclusione del ciclo di istruzione superiore, andare ad accertare la
padronanza della propria lingua madre? (Padronanza che - a scanso di
equivoci - rappresenta comunque un ‘prius’, un requisito in assenza del
quale non si dovrebbe accedere all’esame). E, se proprio si vogliono
accertare le capacità logiche e critiche come è scritto nella legge -,
siamo sicuri che le “lenzuolate” di questa prova (sei pagine fitte,
corpo 9, che anche solo a leggerle e capirle ti ci vuole almeno un’ora,
se sei bravo), costituiscano la forma più adatta ed efficace?
Comunque, quello che mi preme sottolineare è che, anche per la prima
prova scritta, se pure la si vuol conservare, i ragionamenti da fare
riguardano la dimensione sistemica (la natura di sistema) dell’esame,
la chiarezza degli oggetti valutativi e la loro coerenza rispetto al
profilo in uscita dell’indirizzo seguito.
In altri termini: l’idea dominante dovrebbe essere quella di un esame
legato alla specificità degli indirizzi, che sia attento alle
competenze chiave di carattere trasversale e che assuma il porre
problemi e la loro impostazione e risoluzione come la modalità principe
dell’operazione (è questo, credo, il cuore della certificazione delle
competenze in uscita).
Penso che solo in quest’ottica l’esame di stato potrà recuperare senso
e dare senso ai percorsi didattici che ad esso preparano.
Sulla terza prova
Il secondo nervo scoperto riguarda la terza prova scritta.
Alcuni giorni fa, quando il rito della “maturità” la faceva da padrone
su giornali e TV, il Ministro ci ha richiamato che dal 2012 la terza
prova degli Esami di Stato (quella multidisciplinare, predisposta dalla
commissione su argomenti delle materie dell’ultimo anno) cambierà
completamente connotati. Nel senso che diventerà una prova, sempre
pluridisciplinare, ma a carattere nazionale (i test saranno cioè
elaborati centralmente).
Ce ne aveva già parlato lo scorso anno, sempre la Ministra, più o meno
in questo stesso periodo.
Si tratta di innovazione che va valutata positivamente (aspettiamo
comunque di vedere il decreto ministeriale, promesso, come si diceva,
da almeno un anno) e questo perché l’attuale terza prova, per come di
fatto si configura (ora è lasciata alla responsabilità delle singole
commissioni), è, spesso – come sperimentiamo da più di un decennio - ,
una operazione appiattita sui test di simulazione delle scuole,
sostanzialmente nozionistica e senza capo né coda.
Come ben sa anche chi con un po’ di buon senso considera la questione,
i test d’esame permettono di verificare ben poco della effettiva
preparazione degli studenti nelle materie considerate; inoltre, essendo
strutturati su contenuti e secondo finalità diversissimi da commissione
a commissione, non permettono confronti e rilevazioni sensate
(nonostante la presenza di una ‘banca nazionale’ alla quale in
pochissimi attingono), capaci di dare gambe e valore ad un curricolo
nazionale, per quanto sobrio ed essenziale.
Va rilevato inoltre che, delle varie tipologie previste - trattazione
sintetica di argomenti, quesiti singoli o multipli, soluzione di
problemi o di casi pratici e professionali o sviluppo di progetti - (L.
425/997, art. 3 c.2), solo le prime due risultano di fatto “gettonate”
dalle scuole e quindi dalle commissioni. Pertanto le pratiche comuni un
po’ a tutte le commissioni schiacciano sul nozionistico l’insieme della
prova, depotenziandola degli aspetti più innovativi, legati alla
soluzione di problemi o allo sviluppo di progetti; e quindi
all’accertamento di competenze - chiave del profilo in uscita.
C’è da chiedersi quali possano essere state le ragioni per cui sono
prevalse le pratiche riduttive e poco sensate che in tanti lamentano.
Senz’altro sono diverse. Penso però che esse vadano soprattutto
ricercate nella mancanza, dalla prima ora, di una formazione mirata e
“obbligata” dei docenti e dei dirigenti; per cui un certo
pressappochismo e una qualche incoerenza, rispetto agli oggetti di
verifica e valutazione, han finito col creare situazioni diffuse di
inadeguatezza e vacuità.
Nessuno quindi, credo, si dorrà di questo cambiamento previsto per il
prossimo anno. Anzi.
E, a chi pensa che possa essere un attacco all’autonomia delle scuole
(in effetti, la terza prova scritta era stata pensata come “espressione
dell’autonomia didattico – metodologica e organizzativa delle
Istituzioni scolastiche” in quanto “strettamente correlata al POF di
ciascuna di esse”), si può facilmente rispondere che il terreno di
prova dell’autonomia non può essere dato dalle modalità frantumate e
incerte di accertamento della preparazione che abbiamo sperimentato in
questi anni e che quindi il recupero di un minimo di unitarietà
culturale delle nuove generazioni, attraverso una prova
pluridisciplinare nazionale e ben pensata, non può che fare bene al
nostro sistema di istruzione.
Ben venga quindi questo cambiamento. Purché non lo si assuma come
innovazione isolata e lo si caratterizzi rispetto a obiettivi e
finalità – e quindi a dispositivi di accertamento – chiari e precisi.
Lontani cioè dalle ambiguità che oggetti e forme ossificate di
quest’ultimo decennio hanno conferito a un esame di Stato, quello
varato nel 97, che quando è stato introdotto aveva pure buoni elementi
innovativi (poco valorizzati dal mondo della scuola, per responsabilità
che vanno, anche qui, cercate in varie direzioni).
Allora potrebbe essere buona cosa, nel definire i lineamenti di questo
cambiamento:
uno: rileggere la norma con la quale è stato inserito nel nostro
ordinamento e verificare se i suoi contenuti innovativi - che pure si
possono cogliere nei passaggi riportati - vadano riscoperti e
attualizzati in forme nuove e, soprattutto, considerati in termini di
fattibilità;
due: rendere più stringente il rapporto tra accertamento delle
conoscenze, attribuito a prove strutturate, e verifica delle
competenze-chiave trasversali (dalla correlazione dei saperi al loro
uso in contesti diversi, dalla impostazione di un problema alla
strutturazione di un progetto, …);
tre: fare uso di una logica di sistema nella sua predisposizione. Si
tratta di capire come gli accertamenti di questa prova si correlano con
quelli delle altre prove e in che misura costituiscono tessere di
un’operazione valutativa tendenzialmente organica e mirata (in altri
termini: no agli enciclopedismi e agli accademismi, tentazioni mai
completamente vinte della didattica nostrana).
In quest’ottica andrebbe introdotta, impostata e praticata, finalmente,
la certificazione delle competenze di cui si parla per la prima volta –
‘solo’ 14 anni fa! – nella legge istitutiva dell’attuale Esame di stato
(la L. 425 del ‘97).
Ma i ragionamenti fatti richiedono, per avere gambe, condizioni
precise. In primo luogo: crederci; e, subito dopo – e ancora una volta
- , investire (sì, investire), coinvolgere, formare, sperimentare.
Il discorso del ministro sulla terza prova, apprezzabile in sé, o si
misura con tali questioni oppure è aria fritta o gattopardismo puro. O
entrambi.
Sui criteri di ammissione agli Esami
Un terzo nervo scoperto è quello dell’ammissione. Secondo la norma
introdotta lo scorso anno, “sono ammessi all'esame di Stato gli alunni
che ……nello scrutinio finale conseguano una votazione non inferiore a
sei decimi in ciascuna disciplina ……(articolo 6, comma 1, D.P.R. 22
giugno 2009, n.122).
Se n’è parlato a lungo e in modi accesi, soprattutto nelle scuole, in
occasione degli scrutini finali delle quinte dell’anno scorso.
Quest’anno si è preferito alla polemica, l’’aggiustamento’ di buon
senso già sperimentato negli scrutini del 2010. E suggerito
implicitamente, anche se contradditoriamente, dallo stesso Ministro,
quando aveva dichiarato che “Non si ammette uno studente solo perché ha
un cinque in una materia”.
In ogni caso la questione rimane aperta ed urgente anche perché pone
problemi non da poco.
Li riassumerei così:
• i risultati di apprendimento non possono essere valutati in termini
frammentati e in una logica di separatezza delle discipline, ma in
rapporto alla formazione costruita nel corso della vita scolastica
dello studente; gli studenti vanno valutati non tanto sulla base del
rendimento in una singola disciplina, quanto piuttosto sulla
preparazione complessiva e sull’adeguatezza o meno di tale preparazione
al profilo in uscita dei vari indirizzi di studio;
• il vincolo di legare l’ammissione ad una votazione di sufficienza in
tutte le materie non tiene in ogni caso conto del principio di realtà e
costringe i CdC a operazioni di facciata (sufficienze formali) per dare
agli studenti, complessivamente preparati (pur se con qualche risultato
parzialmente negativo in qualcuna delle non poche discipline dei Piani
studi), la possibilità di misurarsi in autonomia con l’EdS. Il rischio
evidente del criterio adottato è che un dispositivo pensato per
favorire l’eccellenza diventi, di fatto, un possibile strumento di
livellamento valutativo.
Sarebbe un bel segnale se il Ministro ascoltasse al riguardo le molte e
sensate voci del mondo della scuola.
Il nostro problema però è che abbiamo un ministro che avrà anche tanti
meriti, a volerglieli riconoscere, ma quanto ad ascolto è decisamente
scarso.
Bisognerebbe forse unire tutte le voci in campo. Chissà… .
Antonio
Valentino su ScuolaOggi.org
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