Perché gli studenti non sanno più risolvere i problemi?
Data: Giovedì, 09 giugno 2011 ore 10:00:00 CEST Argomento: Rassegna stampa
“La risoluzione dei
problemi è stata la spina dorsale dell’insegnamento matematico
dall’epoca del papiro Rhind. La risoluzione dei problemi è ancora, a
mio avviso, la spina dorsale dell’insegnamento nei livelli secondari -
e sono sgomentato del fatto che una cosa così evidente abbia bisogno di
essere sottolineata”. Questa frase è di Georg Polya, matematico
ungherese, famosissimo per un suo libro, How to solve it, forse il
primo grande best seller matematico: ha venduto milioni di copie ed è
stato tradotto in diciassette lingue. Collega senza equivoci
l’insegnamento della matematica con la risoluzione dei problemi, e
nella sua scia si è orientata gran parte della riflessione didattica:
un’altra grande ricercatrice, Anna Zofia Krygowska, ha scritto che “la
risoluzione dei problemi è la forma più efficace non solo dello
sviluppo dell’attività matematica degli allievi, ma anche
dell’apprendimento delle conoscenze, delle abilità, dei metodi e delle
applicazioni
matematiche”.
Matematica e risoluzione di problemi sono spesso associati,
quindi, ma questa associazione è perlomeno a due facce: da un lato,
porre e risolvere problemi è la via maestra per l’apprendimento;
dall’altro, lo sviluppo della capacità di porre e risolvere problemi è
considerato uno degli obiettivi principali dell’insegnamento della
disciplina. È abbastanza evidente che si tratta di due facce della
stessa medaglia, aspetti che sono stati sottolineati in tutti i
programmi e le indicazioni che la scuola italiana si è data. I
Programmi per la scuola elementare del 1985 affermavano esplicitamente
che “il pensiero matematico è caratterizzato dall’attività di
risoluzione di problemi”, e l’ambito “Problemi” era (un po’
impropriamente) un campo specifico del programma, al pari
dell’aritmetica, della geometria e della logica.
Nelle Indicazioni (Moratti) attualmente in vigore troviamo esplicitati
obiettivi come “Riconosce e risolve problemi di vario genere
analizzando la situazione e traducendola in termini matematici”. Nelle
Indicazioni per il curricolo (Fioroni), si riprende l’espressione del
1985: “Caratteristica della pratica matematica è la risoluzione di
problemi, che devono essere intesi come questioni autentiche e
significative, legate spesso alla vita quotidiana, e non solo esercizi
a carattere ripetitivo”. A questo approccio è legato anche la
possibilità di migliorare il rapporto dei ragazzi con questa disciplina
così spesso mal vista e mal vissuta: “Di estrema importanza è lo
sviluppo di un atteggiamento corretto verso la matematica...
riconosciuta e apprezzata come contesto per affrontare e porsi problemi
significativi”.
Anche l’ultima riforma della secondo ciclo batte sullo stesso punto:
nel profilo in uscita del liceo scientifico si pone come obiettivo
“comprendere le strutture portanti dei procedimenti argomentativi e
dimostrativi della matematica...usarle in particolare nel’individuare e
risolvere problemi di varia natura”. Nelle Linee guida per i Tecnici
individuare le strategie appropriate per la risoluzione di problemi è
uno degli obiettivi fondamentali.
Tutti d’accordo, dunque. Ma nella pratica è proprio così? Siamo così
sicuri che l’insegnamento della matematica si sviluppi secondo questi
principi, e soprattutto siamo così sicuri di centrare l’obiettivo?
Gli insegnanti, soprattutto quelli del primo ciclo, sanno che non è
così. L’esperienza ci propone continuamente situazioni in cui gli
allievi, di fronte a un problema di matematica, lasciano da parte
razionalità e buon senso. Casi celeberrimi come l’età del capitano
hanno aperto la strada a ricerche, riflessioni e discussioni: ma in
definitiva ci hanno mostrato come l’insegnamento della matematica,
spesso, abitua i nostri allievi ad agire e pensare in modo
completamente opposto, rispetto ai nostri nobili obiettivi.
(Un gruppo di ricercatori francesi pose a bambini delle scuole
elementari “problemi” del tipo seguente: Su una nave ci sono 26 pecore
e 10 capre; quanti anni ha il capitano? I bambini, quasi tutti, senza
esitazioni risposero: 36! La prova fu ripetuta in diverse condizioni,
con altri bambini o con ragazzi più grandi, cambiando la forma di
presentazione della domanda, ma i risultati cambiarono di poco).
Una prima, ovvia, considerazione è che se la pratica didattica si basa
solo su esercizi ripetuti e tecniche apprese meccanicamente, i ragazzi
tenderanno a ritentare sempre meccanicamente le stesse procedure,
limitando l’uso della materia grigia e affidandosi ciecamente agli
automatismi (“molti matematici cercano di trasformare in zombie i
propri allievi dal primo momento in cui li incontrano”, disse una volta
Vladimir Arnol’d). Un’altra, è che gli insegnanti propongono il più
delle volte problemi che non sono altro che esercizi camuffati, e i
ragazzi cercano di risolvere quello che viene loro proposto più per
assonanza e somiglianza che utilizzando il pensiero. Ma allora che ne è
degli alti obiettivi da cui eravamo partiti?
Tra pochi giorni i nostri ragazzi del liceo scientifico affronteranno
la prova scritta di matematica dell’esame di Stato - che comprende lo
svolgimento di un problema, tra due che verranno proposti -, e
l’esperienza degli anni passati, in particolare quella della
ricorrezione effettuata dall’Invalsi su un campione di prove degli anni
2007 e 2009, ci offre alcuni spunti, che forse possono trasformarsi in
piccoli suggerimenti per i candidati.
La prima osservazione è che i nostri ragazzi quasi mai arrivano in
fondo al problema: rispondono a qualche punto, e via via che procedono
lasciano per strada dei pezzi. La percentuale di quelli che arrivano in
fondo al problema che hanno scelto è inferiore al 10%, e non sempre
questo avviene perché non sanno come risolverlo. Un problema è spesso
visto solo come un insieme di passaggi da fare, non come una domanda a
cui cercare di rispondere; non ha molta importanza se i calcoli che
faccio non portano da nessuna parte, l’importante è farne un po’. Conta
far vedere che ho studiato e che so qualcosa di quell’argomento, non
rispondere alla domanda. Ma perché non abituiamo di più i ragazzi, alla
fine, a tirare le somme, a verificare che quello che conclude il loro
lavoro è davvero la risposta alla domanda che era stata posta? Oltre a
tutto, così facendo, avrebbero probabilmente la possibilità di
individuare almeno alcuni dei propri errori.
Più in generale sembra quasi, leggendo molti svolgimenti, che la
domanda sia poco importante; l’importante è applicare qualche formula
di quelle che sono state studiate in quel contesto. Quasi mai negli
svolgimenti si leggono frasi del tipo “siccome devo trovare questo,
allora faccio quest’altro”. Quasi mai i nostri ragazzi spiegano perché
fanno un certo calcolo, o che relazione ha con la domanda del problema
la costruzione che stanno facendo. Claude Lévi-Strauss diceva che lo
scienziato è l’uomo che pone le vere domande, non quello che dà le
risposte. I nostri ragazzi sembrano poco interessati a comprendere le
domande: forse perché sono poco abituati, almeno in matematica, a
cercarle e a comprenderne il senso.
Negli svolgimenti, le singole affermazioni sono troppo spesso slegate;
non viene quasi mai esplicitato il nesso tra un calcolo e l’altro, tra
una costruzione e la successiva. Manca, o non viene messa in campo, la
capacità di costruire argomentazioni articolate. Chi corregge fa fatica
a trovare il disegno complessivo, la strategia di risoluzione.
Forse anche perché viziati da troppi esercizi sempre uguali, le scelte
dei ragazzi (che devono scegliere 5 quesiti su 10 che vengono proposti)
si orientano, inevitabilmente, su quesiti che sembrano loro familiari,
trascurando sistematicamente quelli dall’aspetto o la formulazione
insolita - che spesso peraltro sono i più semplici. Negli ultimi anni i
quesiti più scelti sono quasi sempre stati quelli in cui la percentuale
di riuscita è risultata drammaticamente più bassa. Un piccolo consiglio
anche qui: guardare quello che chiede la domanda, sforzarsi di capirne
il senso prima ancora di cercare di trovare quale formula o quale
procedura occorrerà utilizzare per rispondere; non scegliere guardando
soltanto ai contenuti, al fatto che i simboli che vediamo scritti ci
ricordano una pagina intera di esercizi del libro. Nel 2009 la
stragrande maggioranza dei ragazzi ha scelto di calcolare un limite
dall’aspetto familiare, e l’80% di essi è caduto nello stesso,
prevedibile, errore. Fiducia cieca nella somiglianza esteriore.
Ragazzi, spesso rispondere è più facile di quello che pensate; solo che
non pensate abbastanza a cosa dovete rispondere. (di Giorgio
Bolondi da www.ilsussidiario.net)
|
|