La Scuola e l’ordinamento scolastico in Italia (parte III)
Data: Domenica, 05 giugno 2011 ore 07:00:00 CEST
Argomento: Redazione


Gli insegnanti
Il sistema di formazione e di reclutamento del corpo insegnante è stato considerato, da sempre, uno degli aspetti più importanti di ogni ordinamento scolastico. In Sicilia, durante il Regno delle Due Sicilie, sebbene la normativa stabiliva che gli insegnanti dipendessero esclusivamente dalla Commissione di Pubblica Istruzione, in tutte le scuole del regno la presenza di molti maestri ecclesiastici e le continue interferenze dei parroci continuavano a compromettere seriamente la laicità dell’istruzione pubblica, inoltre, l’insegnamento femminile restava quasi totalmente nelle mani dei religiosi. Ma le politiche scolastiche del regime borbonico risentivano, soprattutto, delle reazioni ai moti rivoluzionari del 1820-21 e del 1848, che bloccarono in Sicilia, come in molte altre parti d’Italia, lo sviluppo dell’istruzione pubblica; a tal proposito, un apposito regolamento della Commissione di Pubblica Istruzione, riformulava la normativa scolastica in termini reazionari e gran parte del controllo pubblico fu tolto all’autorità civile per essere affidato ai vescovi. Questo processo involutivo si concluse con un decreto di Ferdinando II con il quale consegnava l’istruzione primaria alla esclusiva dipendenza dei vescovi, autorizzandoli "a destituire i maestri e le maestre delle scuole primarie, a sospenderli e a rimuoverli…". Il decreto stabiliva, inoltre, che “le scuole saranno di preferenza stabilite pe’ fanciulli ne’ Conventi e Monasteri, e per le fanciulle ne’ Ritiri e ne’ Conservatori di donne”.
Tali maestri, spesso, ostacolavano la diffusione di metodi didattici moderni e più consoni all’educazione dei giovani, limitandosi ad un sistema d’apprendimento essenzialmente nozionistico e a dei principi elementari di religione.
La selezione dei maestri, la scelta dei contenuti delle materie, dei metodi d’insegnamento, degli orari scolastici e le varie tecniche disciplinari, tutto era nelle mani delle gerarchie ecclesiastiche e strettamente aderenti agli obiettivi politici generali della Restaurazione. Ma il quadro così non sarebbe completo. Infatti, nonostante le difficoltà e le deficienze pedagogiche che affliggevano l’intero ordinamento, nelle scuole del regno cresceva gradualmente il numero degli alunni, cui non teneva dietro quello degli insegnanti. La carenza, quantitativa e qualitativa, del corpo docente costituiva indubbiamente il problema più importante del sistema scolastico. La supplenza del clero, come abbiamo visto, colmava in parte questa lacuna ed era, altresì, agevolata, per la loro maggiore affidabilità,  dai Borboni, anche se non era sufficiente, pertanto, si rendeva inevitabile il ricorso ai laici. Di frequente si verificavano casi di cattedre affidate a insegnanti “non patentati”, spesso impreparati e che, talvolta, non sapevano neanche leggere e scrivere. Pur essendo sanzionato legislativamente l'obbligo della patente o, in subordine, della licenza, erano previste, al di là della tacita accettazione delle situazioni di irregolarità e di corruzione, deroghe abbastanza ampie, attraverso apposite e provvisorie circolari e decreti che esentavano dal possesso dei requisiti di legge. Questa pratica venne, per così dire, ufficializzata definitivamente nel 1858, come risulta dalla circolare inviata dall'Intendente Rosica alle autorità scolastiche provinciali il 7 aprile: “II munificente e clemente nostro re e signore, intento sempre a veder risvegliata la condizione dei suoi sudditi, ha inculcato che sia provveduto alla istruzione primaria colla nomina dei maestri e maestre onde arrecar utile in ispecie alla gente povera. A conseguire siffatto scopo, ove per avventura in qualche municipio non vi fossero sacerdoti a potere essere prescelti a maestri, ha permesso d'includere nelle terne anche i laici; e se degli uni e degli altri siavi difetto, potranno proporsi anche persone che abbiano cura di anime, a tenore del real rescritto del 14 aprile 1852. Le agevolazioni inoltre autorizzate per le femmine, in caso di mancanza di idonee persone, sono di potersi includere nelle teme eziandio donne che non sappiano né leggere né scrivere, coll'obbligo però di farsi coadiuvare da persone capaci approvate dall'ordinario diocesano".
Si trattava, verosimilmente, di un risultato derivante dalle difficoltà e dalle modalità di un reclutamento che molto spesso rispondeva più a criteri di opportunità politiche che di qualità professionali. Se, infatti, determinante e soffocante era il controllo clericale, altrettanto condizionante era il filtro politico attraverso il quale l'insegnante era costretto a passare. "Le commissioni - noterà Aubè nel 1872 - si succedevano l'una all'altra, tutte egualmente disarmate; l'intolleranza del Governo e la sfiducia erano agli estremi. La scienza, la competenza, la capacità erano le condizioni meno importanti nella scelta dei professori; esigendosi più che altro la qualità politica, ne passandosi ad una elezione prima dell'attestato della polizia, e del certificato di religione e di buona condotta".
Tutto ciò influiva negativamente sulla qualità dell'insegnamento, spesso impartito senza la minima padronanza delle più elementari cognizioni didattiche e metodologiche. In una relazione inviata da Caltanissetta alla Commissione Suprema di Pubblica Istruzione di Palermo, ci si lamentava, per esempio, che i fanciulli disertavano le lezioni, ma se ne attribuiva la responsabilità, soprattutto, al corpo docente, "primo, perché spesso non si portano i Maestri al locale della scuola in ora solita e stabilita, secondo, perché svogliato ed insufficiente è il loro insegnamento". Dalla raccolta di giudizi della Commissione sulla qualità dei maestri, risultava, altresì, che molti si presentavano in aula ubriachi, tenevano atteggiamenti immorali e si mostravano "privi di ogni scrupolo".
Certamente non contribuiva alla nobiltà del comportamento del maestro e della sua missione il livello degli stipendi. Nella sua opera del 1844 sull'istruzione primaria, il prof. Salvatore Marchese, dopo avere deplorato la pessima qualità dell'insegnamento, ne riconduceva le cause, tra l'altro, proprio alla bassa remunerazione dei maestri: "Infine, sia per la tenuità dello stipendio, sia per negligenza delle comunali deputazioni, gli istitutori non si consacrano all'istruzione con l'assiduità e l'impegno necessario, per ottenere il fine desiderato. Gli stipendi assegnati a’ pubblici istitutori sono assai tenui, da non potere somministrare mezzi di sussistenza neppure a persona dell'infima classe del popolo”.
Lo stipendio non solo era basso (la sua corresponsione dipendente dallo stato delle finanze comunali e dall'arbitrio degli amministratori), ma variava anche da luogo a luogo, creando disparità, confusione e precarietà. Se nella parte continentale del regno, tra gli anni Trenta e Cinquanta, lo stipendio dei maestri oscillava intorno a 50 ducati annui, con frequenti tendenze al ribasso, al limite dei dieci ducati, in Sicilia oscillava mediamente tra i 50 e gli 80 ducati, con forti differenziazioni locali. Negli anni Cinquanta lo stipendio a Caltanissetta variava tra un minimo di 23 ducati, un massimo di 72 e uno medio di 50; a Catania le cifre rispettivamente erano 12, 240, 45; a Girgenti, 15, 108, 48; a Messina, 12, 175, 35; a Siracusa, 30, 130, 64; a Palermo, 17, 192, 42; a Trapani, 25, 120, 58. A Catania, nel 1844, lo stipendio medio dei 71 maestri (60 uomini e 11 donne) era mediamente di 37 e 23 ducati, per una spesa complessiva comunale di 2647,21 ducati.
Ma le nude cifre non rendono sufficientemente conto delle ristrettezze economiche dei maestri. Il paragone con altre categorie di lavoratori è molto più eloquente. Secondo Vigo “a Napoli, tra il 1840 e il 1850, il compenso giornaliero di un muratore, uguale a quello di un fabbro o di un falegname, si aggirava intorno alle 40 grana, qualcosa come 100 ducati all'anno, mentre i maestri guadagnavano meno di 60 ducati”. Era una retribuzione che difficilmente consentiva la sussistenza familiare. Nel 1810, scriveva Cosimato, “per sostenere una famiglia di cinque persone, cioè un fuoco (il catasto onciario di Carlo III aveva fissato in cinque persone la media dei componenti di ogni fuoco), occorrevano non meno di quattro carlini al giorno per il solo vitto, costituito da cinque rotoli di pane, due di legumi ed ortaggi”. Considerato che un carlino era la decima parte del ducato, un bravo maestro, che aveva la fortuna di guadagnare quattro ducati al mese, se aveva moglie e tre figli, aveva da essere tranquillo per centoquaranta giorni all’anno, solo a pane, legumi e ortaggi. Il nostro povero maestro era così costretto a ricorrere al doppio lavoro; anzi, spesso l'insegnamento costituiva il guadagno accessorio per fabbri, calzolai, sarti. Oppure si dedicava, più o meno proficuamente, al mercato delle cattedre, come rilevava, nella sua angosciata relazione del 1855, il Consultore di Stato, Capomazza: "Spesso ancora ho rilevato che alcuni si procurino la nomina a maestro non per insegnare direttamente ai fanciulli, ma per costituirsi un beneficio personale (quanto grande la miseria che poteva trovare nel miserabile soldo un beneficio!) ed incaricare altri per l'insegnamento o col condividerne il soldo o con darne una piccola frazione al maestro sostituto. In tal modo la scuola si tiene da persone le più abbiette e le meno capaci". Non deve allora stupire la scarsa considerazione in cui era tenuta (e sarà tenuta fino a tutto l'Ottocento anche nello Stato unitario) la figura del maestro: condizionato politicamente, reclutato arbitrariamente, controllato dall'apparato confessionale, pagato poco e senza regolarità, impreparato per forza di cose e obbligato a integrare il magro stipendio con lavori assolutamente incongruenti con la sua professione. Così lo troverà, nel 1861, Francesco De Sanctis: "Lo stato in cui si trovano i maestri è deplorabile. Costretti ad esercitare i più umili e talora bassi uffici per accattarsi la vita; rozzi, pedanti, sono essi tenuti in pochissimo conto presso l'universale, talché non vi è nome tanto stimabile, e così poco stimato, come quello del maestro di scuola". (...continua)

Angelo Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it





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