Giovani: amare & studiare
Data: Venerdì, 27 maggio 2011 ore 18:15:37 CEST
Argomento: Opinioni


Studiare non è mai affare semplice e immediato, ma con l’arrivo della bella stagione può diventare una vera e propria “sofferenza”. Insomma, chi o che cosa ci motiva a restare dentro casa o chiusi in biblioteca per leggere libri, per sottolineare frasi, per praticare esercizi, rinunciando invece a una piacevole passeggiata in centro o al mare, a una partitella con gli amici o a una serata a tutta birra? Insomma, perché vale la pena studiare?

Ciascuno deve ovviamente rispondere da sé a questa domanda, specialmente oggi che quella dello studio, grazie a Dio, è una possibilità per tutti. Una volta i pochi fortunati che potevano studiare non avevano certo questo problema: lo studio era un enorme privilegio. Ancora io ho avuto occasione di incontrare, da piccolo, alcune persone anziane che rimpiangevano il fatto di non aver potuto studiare al loro tempo. Non vi era altra possibilità, allora, che mettersi subito al lavoro e contribuire al sostentamento della famiglia. Altri tempi, per fortuna. Oggi però il rischio di non cogliere più la grande grazia che è lo studio è davvero alto. Ben venga dunque la tentazione ‘primaverile’ che ci impone di riflettere sulle ragioni per cui vale la pena studiare.

 Le ragioni per cui val la pena studiare

          Un’importante suggestione in tale direzione ci potrebbe venire da una riflessione di Jean Guitton, un intellettuale francese di forte valore, che così scrive: «La cosa più bella nel lavoro intellettuale […] è che il lavoro dello spirito è lo specchio e il preludio di ciò che vi sarà più tardi nella vita largamente prodigato. E il bimbo che s’esercita e si dispera, colui che si incaglia dopo aver tanto cercato, quello che è incompreso da un maestro o che non lo comprende, tutti imparano la vita, ancor più che la grammatica o far di conto.

Ugualmente ed anche di più, lo studente solitario che non ha compiti fissi né soccorsi costanti e che è costretto ad imporsi una disciplina da se stesso. È raro veder pedagoghi insistere su questa somiglianza fra la scuola e l’esistenza, che è ciononostante secondo me il segreto principale di tutta la pedagogia: a che servirebbe studiare, se ciò non vi preparasse a quelle leggi piene di eccezioni, a quelle gioie oscurate dai dolori, a quegli imprevisti che domani appariranno come costellazioni enigmatiche che devono servirci da guida? Spesso la materia dei nostri studi è futile: a che può servire, ci si chiede, fare un tema in latino, visto ch’io non parlerò mai in latino?

         Ragionamento che si potrebbe estendere a tutto nei dettagli delle nostre occupazioni. L’unico modo per vincerlo è di attribuire un valore assoluto all’atto d’attenzione, alla perfezione formale o alla pena d’un giorno, voglio dire pensando che ogni atto d’attenzione, di sopportazione, ogni ricerca d’una perfezione minuta, fuori dal profitto e da qualsiasi risultato, trova la sua ricompensa in se stessa. Chi possiede l’anima di un poeta mi comprenderà».

          Parole davvero limpide e chiare: lo studio è per la vita, studiamo per imparare la vita. E come non riconoscere quanto sia importante un tale “imparare la vita”? Il protagonista dello splendido romanzo Bianca come il latte rossa come il sangue di Alessandro D’Avenia, Leo, a un certo punto della storia esclama: «Il brutto della vita è che non ci sono istruzioni!». Ed è proprio così: nella vita non ci sono istruzioni prestabilite e fissate che valgano per tutti gli esseri umani, cioè un qualcosa di simile a ciò che è il complesso e composito apparato istintuale degli animali. Ognuno di noi deve creare la sua mappa del mondo, il suo Nord e il suo Sud, il suo Oriente e il suo Occidente. È qui – qui e non altrove – che trae ragione una vera passione per lo studio, un vero amore per lo studio.

          Tramite le pagine del libri, che ci riportano ciò che altri prima di noi fecero, che ci raccontano come lavora la natura, che ci restituiscono il continuo impegno di scoperta dei funzionamenti più elementari della vita, che mettono in moto le nostre onde cerebrali con i pensieri di grandi uomini del passato, lentamente acquistiamo familiarità con il mondo. Impariamo a sapere il mondo, a gustarne il sapore, la consistenza, la duttilità, la resistenza, e tutto questo ci prepara alla vita.

          Da questo punto di vista, per affrontare la tentazione “primaverile” di allentare la presa dello studio o di viverla con un eccesso di sforzo, non basta porsi di fronte alla domanda “perché studiare”, bisogna cogliere che l’interrogativo più importante è il seguente: “per chi studiare”.

          Si studia, in fondo, per se stessi, per allenare la propria intelligenza a uno sguardo più ampio della realtà, per saggiare la propria volontà di andare a fondo e al fondo delle questioni, per rendere il proprio cuore più sensibile alle frequenze meno appariscenti delle vicende umane, per trasformare il nostro piccolo spirito in un grande ospite della vita e del suo mistero, alla cui custodia e incremento siamo chiamati.

          Ed è per questo che nel passato molti hanno lottato perché l’esperienza dello studio non restasse limitata a soli pochi fortunati e privilegiati, dotati delle condizioni economiche e familiari appropriate. Spesso non lo si ricorda, ma l’obbligo e quindi la possibilità di frequentare la scuola, oltre l’istruzione primaria ed elementare, è un fatto piuttosto recente, cosa di appena quarant’anni fa. Una grande conquista per i più giovani tra di noi.

          Studiare dunque è sicuramente faticoso, impone rinunce e sacrifici, veicola e permette una disciplina dell’anima e del corpo, ma ha il grande pregio di renderci sempre più familiari con il mistero della vita e del mondo: di favorire quell’imparare la vita, da cui dipende poi una vita bella, una vita buona.

 Armando Matteo

 

 







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