Sviluppo frenato dalla bassa istruzione
Data: Giovedì, 05 maggio 2011 ore 22:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Pochi giovani, meno istruiti rispetto agli altri Paesi. Con un sistema di mobilità sociale bloccato, dove il merito non viene premiato come dovrebbe. Se l'Italia cresce poco è anche perché trascura le nuove leve e ha un sistema educativo che funziona male e rappresenta di conseguenza una diseconomia esterna per le imprese. La mancanza di un efficace orientamento genera infatti un sistema in cui i laureati restano disoccupati e le imprese non trovano i tecnici che cercano.
È la fotografia del nostro Paese come emerge dalla documentazione che Confindustria ha preparato come base di discussione per le Assise del 7 maggio. Non poteva mancare il tema "Giovani, merito, opportunità" nella discussione. L'Italia è povera di giovani. È il primo Paese dove gli over 65 hanno superato gli under 15. Il tasso di occupazione giovanile è tra i più bassi della Ue. Inoltre un italiano su 5 tra i 15 e i 29 anni appartiene alla cosiddetta generazione Neet (non in education, employment or training) cioè non studia e non lavora.                                
  Se cresciamo poco è anche per colpa della bassa istruzione: gli individui in età da lavoro che hanno completato gli studi secondari superiori è il 18% inferiore alla media Ocse e il 32% rispetto alla Germania. I punteggi ottenuti dagli studenti delle scuole secondarie nei test Ocse-Pisa sono molto al di sotto della media in matematica e scienze. Con l'Italia divisa in due: il Nord è in linea con la media Ocse, il Sud è al di sotto.
Una situazione che ha un impatto forte sul sistema delle imprese. Dal 1990 a oggi le aziende per aumentare competitività hanno quasi raddoppiato l'inserimento di tecnici, passando da 12 ogni 100 assunti a 22 e superando la Germania. Ma nello stesso periodo le scuole hanno dimezzato l'offerta di istituti tecnici e la scelta delle famiglie si è orientata soprattutto sui licei.
Ciò crea un mismatch sul mercato del lavoro che potrebbe aumentare in futuro, quando andranno in pensione periti metalmeccanici, informatici, chimici, tessili che hanno accompagnato lo sviluppo delle Pmi e che forse non riusciranno ad essere sostituiti: già oggi le imprese italiane non riescono a trovare 110mila tecnici.
Bisogna cambiare rotta, perché il Paese cresca e per inserirci nel programma Europa 2020, in cui istruzione e capitale umano costituiscono fattori determinanti per la competitività e lo sviluppo. Dopo le riforme dell'università e della scuola ora le priorità sono: facilitare la transizione dalla scuola al lavoro, rilanciare l'istruzione tecnica e professionale, aprire i dottorati di ricerca al sistema produttivo, diffondere gli stage nelle imprese e l'alternanza scuola-lavoro, rendere il contratto di apprendistato più vicino alle esigenze delle imprese, superando la distinzione tra formazione interna e formazione esterna all'impresa.
Ma accanto alle norme serve un cambiamento culturale che coinvolga tutti: insegnanti, capi di istituti, famiglie, Stato, Regioni, enti locali. I ritardi italiani infatti non dipendono tanto dalla quantità delle risorse investite, ma dalla mancanza di legami tra merito e retribuzione. La carriera degli insegnanti è poco dinamica, poco retribuita e poco attraente. Esistono lentezze burocratiche, pressioni corporative, insufficiente ruolo delle Regioni e scarsa managerialità, centralismo e statalismo. Tutti fattori che frenano la mobilità sociale e l'aumento del livello d'istruzione.
Inoltre è fondamentale il raccordo tra le politiche dell'education e quelle del lavoro e del welfare, adottando modelli di flexsecurity, flessibilità e sicurezza, come suggerisce il Libro bianco europeo, rivedendo la struttura della spesa sociale per dare più spazio ai giovani.
N. P.   (da IlSole24Ore)

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