Parla il sociologo Gallino: i precari e l'inganno della flessibilità
Data: Sabato, 30 aprile 2011 ore 12:30:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


In Italia un giovane su tre è senza lavoro, il tasso di disoccupazione giovanile negli ultimi due anni e mezzo è salito di dieci punti. Due milioni di ragazzi e ragazze in età compresa tra i quindici e i ventiquattro anni non studiano e non lavorano. Sono dati che impongono una domanda sconsolata: ma in che paese viviamo? Luciano Gallino, noto sociologo, tra i maggiori esperti delle trasformazioni del mercato del lavoro italiano, non ha dubbi: “L’Italia è un paese dove la politica economica, in particolare quella industriale e quella per l’occupazione, praticamente non esiste, viene lasciata al caso, al cosiddetto mercato o alle vicende economiche internazionali senza alcun progetto realistico per creare occupazione soprattutto per quel che riguarda i giovani. È anche un paese in cui la crisi che il mondo sta attraversando, al tempo stesso finanziaria ed economica, è stata assai poco compresa e ancor meno contrastata.   Rassegna Cerchiamo di approfondirla questa crisi. Intanto, professor Gallino, che cosa non si è capito qui in Italia?

Gallino Innanzitutto bisogna dire che noi dobbiamo affrontare delle difficoltà specifiche anche se la situazione del paese va inquadrata in quella del mondo occidentale. In Italia non si è capito che l’occupazione non può essere affidata al mercato in presenza di una crisi che ha messo spietatamente in luce proprio le sue insufficienze. Bisognerebbe, invece, pensare a un progetto simile al New Deal americano degli anni trenta, fondato su robuste politiche keynesiane. Soprattutto servirebbe che lo Stato assumesse il difficile ma indispensabile ruolo di datore di lavoro di ultima istanza. Negli ultimi anni, invece, gli Stati si sono assunti il compito di salvatori di ultima istanza degli enti finanziari, senza occuparsi di ciò che stava accadendo nel campo della produzione e dell’occupazione.

Rassegna Facciamo un passo indietro. In realtà il fenomeno dell’inoccupazione o disoccupazione giovanile non nasce con la crisi del 2008, ma ben prima. E con un tratto caratterizzante: per i ragazzi italiani l’entrata nel mondo del lavoro è stata ed è segnata dalla precarietà.

Gallino Il malanno endemico di cui soffre l’Italia è legato a una concezione puramente mercantile del lavoro. I vari governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni hanno adottato il credo liberista secondo il quale quanto più l’occupazione è flessibile, tanto più essa aumenta. La realtà ha dimostrato che questo assunto è sbagliato. Diciamo così: quanto più l’occupazione è flessibile e precaria, tanto più, al minino scossone, diminuisce. Ad aggravare una malattia già di per sé mortale vi è il fatto che da noi non esistono sistemi di protezione consolidati come accade in Europa: la Francia, ad esempio, ha scelto la strada del reddito minimo garantito, mentre in Danimarca sono in vigore sia politiche di sostegno al reddito per i disoccupati sia aiuti specifici alle famiglie. E non è tutto. La produttività del lavoro – intesa proprio come valore aggiunto per ora lavorata – è stagnante da oltre quindici anni. In Germania, in Francia e nel Regno Unito dal 1995 ad oggi è aumentata tra i venti e i trenta punti percentuale. E con la produttività sono stagnanti anche i salari, praticamente fermi. Produttività e salari stagnanti significano minor domanda interna e quindi meno posti di lavoro. Quando la crisi è arrivata tutti i paesi hanno subìto un colpo durissimo, ma in Italia l’impatto è avvenuto su un organismo economico già particolarmente debole.

Rassegna Nel secondo dopoguerra uno degli strumenti, usiamo questo termine anche se improprio, che ha consentito a intere generazioni di entrare nel mondo del lavoro (e anche di cambiare il proprio destino) è stata la scuola. Oggi nel nostro paese si investe davvero troppo poco nell’istruzione. È possibile creare occupazione giovanile in queste condizioni?

Gallino I tagli alla scuola in tutte le sue forme e livelli, dalle materne all’università, sono uno tra i provvedimenti più insensati che si potessero immaginare per far fronte ai problemi dell’occupazione giovanile e del rilancio dell’economia. Nel giro di pochi anni si avranno centinaia di migliaia di ragazzi meno formati e meno istruiti di quanti ne avremmo avuti senza i tagli “lineari”. Bisogna dire che altri paesi, la Germania o il Regno Unito ad esempio, dove pure hanno ridotto le risorse destinate allo Stato sociale, hanno evitato di metter mano ai fondi per la scuola. Da noi, invece, comunque lo si guardi, si tratta di una sorta di suicidio nazionale e, al tempo stesso, è un attacco – ho sentito uno storico definirlo un genocidio culturale – nei confronti delle nuove generazioni.

Rassegna Di che tipo di formazione ci sarebbe bisogno? Serve un’istruzione tecnica che consenta l’acquisizione di nozioni al passo con i tempi o serve altro?

Gallino Molte delle cose dette sul fatto che in Italia non esiste un collegamento adeguato tra industria e scuole, tra istruzione ed economia nascono da una quasi inverosimile ignoranza. Il complesso della rete degli istituti tecnicoindustriale è un potente collegamento tra scuole e industrie da parecchie generazioni. Se l’industria italiana ebbe negli anni sessanta e ottanta un notevole sviluppo e una importante affermazione, lo si deve al fatto che la scuola pubblica, attraverso gli istituti specifici, formava decine di migliaia di tecnici, di periti, di capi. Il problema è un altro: sia l’industria privata sia il sistema pubblico di ricerca sono sottosviluppati. Scarsi investimenti in ricerca si traducono in pochi ricercatori e così si disincentiva naturalmente anche l’istruzione universitaria. Inoltre non abbiamo più un sistema industriale degno di questo nome. Ormai le aziende manifatturiere importanti nel nostro paese sono ridotte a una, Finmeccanica, dato che la Fiat non sappiamo che fine farà. Questo vuol dire che anche sulle università e sugli istituti tecnici si riversa quella scarsa domanda di personale altamente qualificato. E così si è innescato un circolo perverso: senza ricerca non si provvede a tenere in piedi e a sviluppare produzioni complesse e sofisticate come quelle che una volta avevamo.

 
Rassegna Ma un sapere così parcellizzato, come sarà quello prodotto dall’università targata Gelmini, aiuterà i ragazzi e le ragazze a orientarsi e a stare nel mondo del lavoro o sarà un ulteriore handicap

Gallino Per il momento la riforma Gelmini è un colossale pasticcio. Nell’università, ad esempio, sta provocando un grande caos: decine di migliaia di studenti non sanno più quali corsi seguire e quali esami affrontare. Nell’insieme è una pessima ricetta perché da un lato non considera che di sapere tecnologico e tecnico ce n’è già molto nella scuola e, dall’altro, perché non tiene conto che noi avremo bisogno di persone che, accanto a una ragionevole dose di specializzazione, abbiano ampie competenze generali e strategiche per comprendere i grandi fenomeni del mondo in movimento. Ci sarebbe molto più bisogno di quanto non si creda di pensiero critico in tutti campi. Avremmo bisogno di persone che non si pongono davanti ai fenomeni economici e culturali come se il mondo fosse caduto dall’alto così come è oggi, ma si rendessero conto che il pianeta è stato costruito in base a precisi progetti ideologici, culturali e politici e si potrebbe anche cambiarlo adottando altri progetti . La riforma della scuola sembra impedire o comunque ostacolare la formazione di un pensiero critico.

Rassegna In una recente ricerca di Almalaurea sono emersi dati impressionanti. Oltre a una impossibilità di passare da un destino predefinito a uno scelto – difficilmente il figlio di un operaio diventerà ingegnere –, qualora ci riuscisse, il figlio di un professionista avrà un’aspettativa di guadagno pari a 150 mentre il figlio di un operario che si laureasse in ingegneria avrebbe un’aspettativa di guadagno pari a 100. Che effetto ha questa situazione per le generazioni più giovani, ma anche per il paese?

Gallino Significa che ad onta delle affermazioni che vengono rilasciate anche – ahimè – da politici di centrosinistra, le classi sociali sono una realtà dura e severa come non mai. Uno degli sviluppi più preoccupanti degli ultimi quindici, venti anni, o forse più, di cui oggi raccogliamo gli amari frutti, è l’enorme crescita delle diseguaglianze. Sono spaventose a livello mondiale, ma sono anche elevatissime nei singoli paesi e il nostro, tra quelli Ocse, si distingue per essere diventato uno tra i più diseguali del mondo assieme agli Usa, al Brasile e al Regno Unito. Tra i costi della diseguaglianza c’è questo: il percorso verso professioni e posizioni sociali più elevate, meglio retribuite, con più potere decisionale è sostanzialmente precluso perché il potere è concentrato di fatto nelle mani di circa il 10 per cento della popolazione, mentre il rimanente 90 è rimasto quasi a terra. Bisognerebbe cominciare a inserire nell’agenda politica la considerazione che le classi sociali esistono, che sono delle gabbie ferree da cui nessuno può uscire soltanto sgomitando. Alcuni ci riescono ma, come meccanismo collettivo, l’ascensore verso l’alto si è rotto. E bisognerebbe, anche, prendere posizione contro un fenomeno aberrante: negli ultimi venti anni vi è stata una straordinaria redistribuzione di reddito tutta però dal basso verso l’alto. Il 10 per cento più ricco è diventato sempre più ricco e il 40-50-60 per cento dei più poveri e dei meno benestanti è diventato sempre più povero. Ripeto, le diseguaglianze non consistono soltanto nel possedere o meno più soldi. Avere un reddito più elevato significa maggior potere e quindi maggiori possibilità di raggiungere i gradi più elevati della scala sociale, mentre reddito inferiore e bassa ricchezza significano restar fermi alla porta di un ascensore rotto.

Rassegna Ieri precari, oggi disoccupati, domani segnati irrimediabilmente da questo vero “difetto d’origine” anche quando la crisi sarà finita. Esiste questo rischio per gli under 40 di oggi?

Gallino Quando prendo in mano qualcuno dei miei vecchi libri sulla precarietà o sul lavoro che non è una merce sono diviso tra due sentimenti contrastanti. Il compiacimento per aver scritto queste cose diversi anni fa e la voglia di gettarli tutti nel giardino sottostante perché in fondo non sono serviti a nulla. Aver denunciato i rischi di questo fenomeno non ha cambiato di una virgola le scelte che poi si sono compiute. Alcune settimane fa il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha detto che non solo la precarietà nuoce alle persone, ma nuoce perfino alle aziende. Quale miglior motivo per cercare di andare in un’altra direzione. Il fatto è che i disastri combinati su questo fronte non si rappezzano con alcuni interventi, anche se questi sarebbero necessari e urgenti. C’è da ricostruire il destino di un’intera generazione o forse di due. Quello che succederà, e ormai si sta delineando, è che coloro che hanno avuto per parecchi anni occupazioni precarie vanno incontro a versamenti pensionistici dell’ordine del 20 per cento del salario medio. In concreto: da anziani dovranno vivere con assegni di 200 euro. È stata semidistrutta un’intera generazione. Il male c’era già, ma la crisi lo ha violentemente scoperchiato. Se era difficile per un giovane trovare nel 2006 un contratto di lavoro a tempo determinato, oggi è diventata un’impresa disperante. Teniamo conto che dal 2005 oltre il 75 per cento di tutti i nuovi avviamenti al lavoro passa per i contratti atipici. Non tutti sono giovani, ma nella stragrande maggioranza lo sono. Contrariamente a quello che qualcuno ha allegramente sostenuto negli ultimi tempi, non è affatto vero che dopo due o tre anni questi contratti si trasformano in contratti stabili; lo diventa solo un terzo, mentre il resto rimarrà nella precarietà per decenni con conseguenze serissime sull’esistenza e sulla progettualità della vita.

Rassegna Se il paese brucia il destino di intere generazioni, finisce per non sfruttare fino in fondo le potenzialità che potrebbe avere...

Gallino Certo, e i giovani si chiedono che cosa fare. È terribilmente difficile dare loro una risposta. In assenza di una politica industriale e la conseguente sparizione della grande industria, di fronte alla mancanza di politiche del lavoro, dell’istruzione eccetera c’è poco da proporre o da fare. Certamente bisognerebbe costruire – nella scuola – un’idea più realistica e concreta della realtà. Troppi giovani cadono nell’ipnosi di credere che il mondo è fatto così e non c’è nulla da fare. Bisognerebbe, invece, essere in grado di sviluppare progetti culturali, politici e perfino morali di segno diverso. Da questo punto di vista gli intellettuali e gli accademici hanno, più ancora degli insegnanti, la loro responsabilità. Rassegna

Rassegna Ma lei professor Gallino ritiene si possa invertire questa tendenza che brucia intere generazioni e impoverisce l’Italia?

Gallino Occorre adottare nuove politiche economiche, nuove politiche del lavoro. Si deve in primo luogo buttare nel cestino la legislazione sul lavoro degli ultimi vent’anni e sostituirla con una di segno opposto. Oggi sono ammesse fino a quarantacinque tipologie di lavoro precario, senza considerare quelle dell’economia sommersa. Per cominciare è necessario annullare questa catastrofica pletora di lavori atipici per tornare al primato del contratto unico a tempo indeterminato e orario pieno, corredato di quattro o cinque deroghe perché sia le persone che le imprese possono avere bisogno di lavoro a termine. Sarebbe compito della legislazione definire che il lavoro è per definizione senza scadenza. Sancire questo principio converrebbe economicamente e rispetterebbe l’identità e la dignità della persona. La mancata scadenza invece riguarda le merci sugli scaffali dei supermercati. E poi è necessario metter mano alle enormi iniquità del nostro sistema fiscale per cui un lavoratore con un salario tra i 15 e 20 mila euro di reddito annuo, sia pure con un po’ di detrazioni, è assoggettato a un’aliquota minima del 23 per cento, mentre un manager che guadagna 5 milioni di plusvalenze, grazie al meccanismo delle stock options sulle azioni, paga il 12,5 . Un sistema fiscale di questo genere è oscenamente iniquo e incide in modo negativo sulle entrate dello Stato. C’è poi il grosso problema dell’economia sommersa, valutata ormai attorno al 20 per cento del Pil. Parliamo di circa 300 miliardi: al fisco generale sono sottratti così poco meno di 120 miliardi. Finora nessun governo è riuscito a mettervi mano, ma come mai in Francia e in Germania (dove pure esiste questo fenomeno) il dato si ferma all’8 per cento? In Italia si è stabilita una sorta di iniquo patto sociale per cui da un lato il governo fa finta di tassare pesantemente le imprese e dall’altro queste fanno finta di pagare le tasse. Questi sono i meccanismi su cui occorrerebbe metter mano per rendere disponibili le risorse da destinare all’occupazione. E poi si deve ribaltare l’idea che i beni pubblici vanno affidati al privato perché più efficiente. È una affermazione che non sta né in cielo né in terra. Numerosissimi documenti affermano che non esiste nessuna correlazione tra efficienza e produzione privata di beni. Ci sarebbero molte cose da fare, ma in primo luogo sarebbero necessari elettori consapevoli e forze politiche disponibili a mettere in campo progetti di questo tipo. Devo amaramente riconoscere che non esiste – purtroppo – questa prospettiva per l’oggi e temo neppure per il domani.(Da Rassegna.it di Roberta Lisi)

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