I test Invalsi creano il panico, ma c’è qualcosa di più grave... di Giorgio Israel
Data: Giovedì, 28 aprile 2011 ore 11:00:00 CEST Argomento: Rassegna stampa
È proprio il caso di
spendere qualche parola chiara sui test, in particolare sui test
Invalsi, che stanno per essere “somministrati” alle scuole e che tanti
sommovimenti stanno provocando. Difatti,
è usuale ripetere che sulla questione della valutazione della scuola
cadono ministeri e governi, perché troppi insegnanti non vogliono
essere valutati. Trattasi di
una mezza verità, perché, per evitare che un ministro cada sulla
valutazione - come accadde a Berlinguer - bisognerebbe almeno che le
procedure proposte fossero meditate e ragionevoli, in modo da mettere
all’angolo le resistenze puramente corporative. Questo non fu il
caso del marchingegno scombiccherato proposto da Berlinguer, come non è
il caso dei discutibilissimi meccanismi proposti per la recente
sperimentazione, come abbiamo avuto modo di spiegare in altra sede.
Pensare che non si debba far fronte a resistenze aprioristiche è
assurdo, ma quantomeno si dovrebbe evitare che le più elementari
obiezioni sorgano anche nelle menti più disattente.
Così, in un clima reso già rovente dal rifiuto opposto da tante scuole
alla sperimentazione della valutazione, ci troviamo di fronte
all’appuntamento delle prove Invalsi di maggio. E anche in questo caso
sono state create le condizioni ottimali per rendere indigesto questo
passaggio. Il principale errore sta nell’aver creato un grande margine
di ambiguità circa il significato, la portata e le implicazioni di
queste prove, ovvero circa il significato, la portata e le implicazioni
dei test.
Qui si impongono alcune considerazioni generali. È sconcertante quanto
sia difficile discutere razionalmente sui temi della valutazione. Per
esempio, attorno ai temi delle valutazioni bibliometriche della ricerca
scientifica si sta accumulando una letteratura di notevole consistenza
e autorità - prodotta da persone e istituzioni di primo piano in ambito
scientifico - che mette radicalmente in discussione la validità di
queste procedure. Ultimo, in ordine di tempo, è l’articolo di Douglas
Arnold, presidente di una delle massime società scientifiche mondiali
(SIAM, Society for Industrial and Applied Mathematics) e di Kristine
Fowler, bibliotecaria dell’Università del Minnesota, dal titolo
Nefarious Numbers (numeri nefandi).
Ebbene, provatevi a trasmettere questa letteratura agli specialisti
nostrani di valutazione, nella speranza di aprire una discussione: la
mettono nel cassetto, evitando qualsiasi discussione, salvo
menzionarvi, in separata sede, come nemici “fondamentalisti” della
valutazione. Qualcosa di simile accade sulla questione dei test.
Inutile comunicare rapporti e articoli italiani ed esteri sulla
questione, scrivere articoli e rapporti, sollevare aspetti critici,
documentare i cattivi effetti prodotti dall’uso massiccio dei test -
come ho fatto di recente a proposito dell’insegnamento della matematica
in Finlandia (cfr. Il Foglio del 21 aprile) -, discutere i limiti
precisi entro cui l’uso dei test deve essere confinato. Gli specialisti
della valutazione si comportano ormai come una setta impermeabile alla
discussione razionale e totalmente autoreferenziale.
Quel che conduce ad atteggiamenti dogmatici e incapaci di aprirsi alla
discussione è l’approccio puramente metodologico. Essere specialisti di
valutazione in astratto è un nonsenso. Allo stesso modo, è un nonsenso
la didattica metodologica “a prescindere” dall’oggetto cui si applica.
Un esempio tipico - che ci ricondurrà al nostro tema - è lo studio
delle cosiddette “misconcezioni” in matematica, che alimenta una
complessa e vasta casistica delle cause concettuali degli “errori” in
cui più di frequente incappano gli studenti. In realtà, chi conosca
bene la matematica, sa che l’errore ne è il pane quotidiano, e anzi che
la matematica vive dell’errore (si leggano le magistrali considerazioni
di Federigo Enriques in materia), che spesso non è errore nel senso
comune del termine, ma una premessa concettuale non necessariamente
sterile e falsa, in una scienza che tutto è salvo l’assoluta esattezza
logica come qualcuno ritiene ingenuamente. Non è possibile diffondersi
qui su tale interessantissimo tema - lo faremo altrove - ma, a ben
vedere, l’intera storia del calcolo infinitesimale è una storia di
“misconcezioni”... una storia mai conclusa e probabilmente impossibile
da concludersi.
Secondo Eulero, il calcolo infinitesimale non è altro che il calcolo
dei rapporti 0/0, che possono assumere infiniti valori finiti: una
simile “misconcezione” gli sarebbe valsa oggi la diagnosi di
“discalculico” da parte di qualche psicologo delle Asl e l’assegnazione
a un programma didattico differenziato per alunni disturbati. E lo
stesso sarebbe successo a moltissimi altri grandi matematici.
L’ingenuità sta nel credere che esista una formulazione della
matematica definita e codificata una volta per tutte, cui ci si possa
riferire come l’assoluta “esattezza”. Poiché tale versione non esiste,
ci si impiglia nella costruzione di un “oggetto didattico” inesistente
e privo di relazioni con la matematica reale - quella che si è
costruita man mano nella storia reale - e in una casistica degna della
peggiore scolastica dell’ultimo Medioevo.
Queste considerazioni si ricollegano al tema dei test, e al contenuto
di un articolo pubblicato sul Corriere della Sera (21 aprile) dal
titolo imbarazzante Nei test dell’Invalsi la matematica sarà
“argomentativa” e dal sottotitolo Non solo risposte, ma ragionamenti.
In verità, per chi ha qualche competenza autentica di matematica è a
dir poco sorprendente scoprire che esiste una “matematica
argomentativa”, ovvero quella che si fa mettendo in opera
ragionamenti?... E quale sarebbe la matematica “non argomentativa”?
Quella che si fa senza ragionare? La matematica a indovinelli? La
matematica in cui si risponde a caso? Sarebbe la matematica in cui -
dice l’“esperto” intervistato – “se c’hai preso sei bravo, se non c’hai
preso buonanotte”. Ma naturalmente questa non è matematica - come non
sarebbe storia, geografia o altro - non è neppure nozionismo, è
semplicemente una banale lotteria che è difficile venga messa in opera
anche dal peggior insegnante, se non con l’uso di test a risposta
chiusa che - appunto! - non consentono di capire se la casella giusta è
stata contrassegnata a caso oppure a seguito di un ragionamento
corretto.
È chiaro allora il meccanismo che ha condotto a una simile assurda
invenzione. Per difendersi dalle critiche che vengono mosse ai test, si
inventa una categoria insensata, la “matematica argomentativa”. E
avvalendosi della innocente incompetenza di qualche povero giornalista,
si rovescia la realtà, facendo dei test “argomentativi” qualcosa che
supererebbe anche la migliore didattica tradizionale della matematica.
Ma, se siamo ridotti - pur di fare i test e di difenderli capziosamente
- a metterci nelle mani di “esperti” che non si vergognano di inventare
simili categorie, allora siamo già molto avanti sulla via
dell’imbarbarimento culturale.
Queste trovate non risolvono affatto il problema centrale, che è
notoriamente quello di utilizzare i test per produrre giudizi
“oggettivi”. Anche su questo tema sono state prodotte osservazioni a
non finire - anch’esse totalmente ignorate, l’aggettivo “oggettivo”
viene ripetuto come un mantra - per mostrare che il test, in quanto
frutto delle idee specifiche di chi l’ha apprestato ha ben poco di
oggettivo. Basta mettersi attorno a un tavolo in più di una persona per
discutere i test esemplificati in quell’articolo del Corriere, o i
tanti altri proposti, per veder emergere opinioni differenti, persino
opposte, circa il loro valore intrinseco e valutativo.
A meno che... A meno che il test non sia rigorosamente confinato alla
verifica della presenza di capacità minime - di calcolo, grammaticali,
sintattiche, ortografiche - che può essere affidata a quiz a risposta
chiusa. Ma non appena si pretende di andar oltre, l’“oggettività”
svanisce come fumo al vento. Come può verificarsi la capacità
argomentativa di un alunno di fronte a un problema matematico? A meno
che non sia estremamente banale e meccanico, anche il più semplice
problema matematico si presta a una grande molteplicità di soluzioni.
Chiunque abbia provato a proporre un problema matematico a un gruppo di
bambini delle primarie, sa che, suddividendo la classe in piccoli
gruppi, o addirittura per singoli, si ottengono tante procedure diverse
e quel che è davvero utile è stimolare i bambini a confrontare le varie
soluzioni trovate, ad aprire una discussione sulle diverse vie seguite,
il che può consentire all’insegnante di evidenziare e approfondire i
diversi aspetti dei concetti in gioco. Tutto ciò esula completamente
dalla dinamica della valutazione cosiddetta “oggettiva” mediante test.
Difatti, se il test non richiede soltanto di contrassegnare la risposta
esatta ma di esporre dettagliatamente il percorso seguito, non esisterà
mai (salvo casi privi di interesse) un unico standard dimostrativo con
cui confrontarlo. Si aprirà così la via a una molteplicità di
valutazioni della via seguita, che possono anche essere fortemente
divergenti, secondo il punto di vista dell’esaminatore. Si ritorna così
inevitabilmente a un giudizio non dissimile da quello espresso
tradizionalmente con i voti.
Ripetiamolo: nessuno esclude l’utilità dei test per valutare
l’esistenza di livelli minimi nelle nostre scuole, e si sa bene quanto
questa valutazione sia purtroppo necessaria. Ma quel che è sbagliato,
al limite irresponsabile, è attribuire ai test una funzione di
valutazione complessiva del sistema scolastico e addirittura di
valutazione dell’operato degli insegnanti, mediante la stima del
“valore aggiunto” negli apprendimenti (che pena questo riduzionismo
economicista...). Ma il rischio è ancora più grave e, quando è stato
paventato, non ci si rendeva conto che potesse diventare realtà in
pochi mesi. Il rischio maggiore è legato all’introduzione di quel che
viene chiamato il “teaching to the test”, ovvero la sostituzione
dell’insegnamento ordinario con un’attività di addestramento al
superamento dei test.
La critica degli effetti devastanti di un simile approccio è stata
ampiamente sviluppata all’estero ed è auspicabile che non vi sia
bisogno di riproporla. Tuttavia, quel che sta accadendo in questi
giorni dimostra a quali esiti devastanti si stia arrivando. Il mercato
dei manuali scolastici è di fronte a un’alluvione di libercoli che si
presentano come “guide alle prove Invalsi”, “percorsi per affrontarle”,
“preparazione alle prove di valutazione”, mediante “esercizi e modelli
per lo sviluppo delle competenze”, e l’“analisi delle prove nazionali”
precedenti.
Ho sotto gli occhi alcuni di questi libercoli e c’è da restare
raccapricciati. Un insegnante della secondaria superiore dovrebbe
smettere di insegnare la letteratura italiana, per insegnare a leggere
le istruzioni di un piano di evacuazione della scuola in caso di
calamità naturale, a individuare le informazioni nel dépliant di una
mostra, o a saper leggere una tabella di previsioni del tempo. Analoghe
scempiaggini per le altre materie. Quel che è più grave è che parecchi
di questi libri si presentino non soltanto come meri “eserciziari”, ma
come manuali sostitutivi della didattica ordinaria, pretendendo di
fornire “strategie di insegnamento/apprendimento”, “strumenti operativi
forti” capaci di migliorare la professionalità docente e di sviluppare
una non meglio specificata “presa di coscienza” da parte dello
studente. Siamo così di fronte a una sfacciata proposizione del
“teaching to the test” come approccio didattico alternativo a quello
tradizionale.
È ben comprensibile allora che la reazione degli insegnanti di fronte a
questo impatto aggressivo sia molto differenziata. C’è chi si
assoggetta e sospende l’insegnamento ordinario per addestrare gli
studenti al superamento dei prossimi test, con effetti devastanti, ma
con motivazioni riconducibili al timore di trovarsi di fronte a una
valutazione negativa della propria classe. C’è chi si appresta ad
“aiutare” gli studenti a superare i test. C’è chi si ribella al degrado
della funzione insegnante proponendosi di scioperare. C’è infine chi,
correttamente, ignora quanto accade e prosegue nell’attività ordinaria,
vada come vada il risultato dei test.
Una considerazione finale si impone. L’andazzo cui si sta assistendo
configura una tendenza verso il degrado dell’insegnamento e della
figura dell’insegnante, sempre più destinata a trasformarsi nella
figura del “facilitatore”, passacarte di valutazioni e di metodologie
didattiche confezionate da “esperti” sulla cui mai valutata competenza
è meglio stendere un velo pietoso. Altro che rivalutazione
meritocratica della funzione dell’insegnante! Qui rischiano di essere
premiati coloro che si mostreranno proni a questo andazzo. Come
stupirsi allora se, ancora una volta, ci troveremo di fronte alla bieca
alternativa tra un ulteriore degrado della scuola italiana o un
ennesimo fallimento del tentativo di introdurre serie modalità di
valutazione? O a entrambi gli esiti?
(di Giorgio Israel da Il Sussidiario.net)
redazione@aetnanet.org
|
|