Ma questo non c'è nel programma!
Data: Martedì, 26 aprile 2011 ore 18:06:11 CEST
Argomento: Redazione


Mi ha scritto una diciottenne, che ha proposto la lettura di un mio articolo, durante l’ora di religione. Nell’articolo invitavo i ragazzi a desiderare cose grandi e gli adulti a mostrarle attraverso la loro vita, dando spazio all’istanza centrale dell’adolescenza: la fame di bellezza, verità, bene. Quindi invitavo ad approfondire la domanda di senso sul mondo e le persone, vero banco di prova perché l’io rispecchiandosi nel mondo, si conosca e ami, e possa quindi emergere e costruirsi secondo la propria vocazione. La vita ci è data e l’adolescenza è la stagione per accettare questo “dato” come “compito”: vocazione (chiamata e risposta). Solo il senso e la ricerca di senso dà all’io dell’adolescente gli strumenti per scoprire ciò che è venuto a raccontare di unico, ciò che è venuto a creare. Un proverbio ebraico dice che Dio ha creato l’uomo per sentirgli raccontare storie. Noi raccontiamo la nostra storia quando l’assumiamo come compito: la nostra e quelle di chi ci è affidato.

La ragazza racconta che i ragazzi erano attenti e interessati, ma che ad un tratto il professore, un sacerdote, l’ha interrotta dicendo che la realtà descritta nell’articolo non esiste e che i ragazzi cercano solo cose materiali e divertimenti effimeri, altro che il senso… La ragazza ha risposto alla forzatura ideologica (generalizzante e pessimista nel confondere i sintomi con le cause) con l’evidenza della carne: lei era la testimonianza di quella ricerca. Il professore l’ha rimproverata del fatto che quella ricerca non emergeva dal sul modo di stare in classe e che le domande fondamentali della vita erano nel programma di secondo anno e non era suo compito tirarle fuori.

Fare l’insegnante è una vocazione stipendiata. Per non parlare del sacerdote, che è una vocazione e basta. Una vocazione il cui stipendio è l’unicità della persona, sempre degna di ogni sforzo. Anche se tutti i ragazzi del mondo fossero superficiali e immorali, come li descriveva il professore, a maggior ragione saremmo “chiamati” (vocazione è ciò che la realtà chiede, non quello che noi vogliamo la realtà sia) a prendercene cura. Dio si è incarnato a dispetto delle statistiche e si è occupato di coloro che ricadevano sotto il suo raggio di azione spazio-temporale di 33 anni in Palestina, e spesso erano proprio i cosiddetti “peggiori”. E lui era venuto per quelli. Si fa uomo proprio perché l’uomo ha bisogno di lui e risveglia nell’uomo la nostalgia di quel cielo che l’uomo è capace di guardare, ma spesso dimentica come fare. Gesù dava del tu a tutti, non generalizzava, cercava e trovava il bene sempre, sapeva contare sempre e solo fino a uno: la persona. Si occupava del bene piccolo, lo curava e lo faceva crescere, come il Padre si prende cura dell’erba del campo.

Lo chiamavano Maestro, perché aveva l’autorità della verità unità all’amore. Ogni maestro, partecipa alla vita del Maestro: essere mediatore di conoscenza vera e dare spazio e fiducia al bene che c’è in ogni uomo, lasciandolo libero di scegliere. Il giovane ricco se ne andò, anche se il Maestro gli disse la verità e “fissatolo lo amò”.

L’insegnamento è arte dell’incarnarsi, entrare nelle contraddizioni del caos del cuore adolescente e dare fiducia a quel caos. Educare è educare alla libertà sino al rischio di fallire, ma lasciare la porta aperta per un ritorno del figlio che temporaneamente (cioè per tutto il tempo della libertà) si è allontanato. Inganno sarebbe seguire il figlio nella sua fuga dalla realtà. Pensate se il prodigo si risvegliasse con il padre a fianco, a pascolare i porci con lui. Inganno è anche rimanere arroccati nel proprio castello e giudicare in modo sprezzante il figlio che torna pentito dal sul caos, per mettere un po’ di ordine. L’amore del Padre è preventivo, è roccia, non è conseguenza dei meriti del figlio. L’ho visto fare a Padre Puglisi nel mio liceo, di lui scrive una studentessa: “Non plasmava, non condizionava, non imponeva, non giudicava, attendeva i tempi di ognuno. Anche se bisognava aspettare anni. Parlando metteva in evidenza le cose belle, il cammino fatto, anche se piccolo. Diceva: guarda sei migliorata, ora fai un altro passo”.

Vorrei avere anche io quella pazienza che sa aspettare e andare incontro quando finalmente uno spiraglio si apre, che mette in evidenza il piccolo passo positivo. A questo è chiamato un maestro, questa è la sua vocazione. Chi sta con adolescenti è chiamato ad accettarne il caos, sapendo che è la strada per l’ordine, solo chi è nel caos tumultuoso dell’adolescenza ha fame di senso. Il Maestro non ha avuto paura del caos dell’uomo, ci è sprofondato dentro, si è fatto caos, per ridarci l’ordine.

Di Alessandro D’Avenia dalla rubrica Per chi suona la campanella, Aprile 2011

 







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