La libertà, ''nuovo'' metodo (infallibile) per salvare la scuola
Data: Lunedì, 18 aprile 2011 ore 08:03:01 CEST Argomento: Rassegna stampa
L’imminenza
delle prove Invalsi 2011, che nel corso del mese di maggio
rileveranno lo stato degli apprendimenti in italiano e matematica di
una fascia importante della popolazione studentesca (seconda e quinta
classe della scuola primaria; prima e terza classe della scuola
secondaria di primo grado, coincidente con la prova nazionale
dell’esame di Stato del primo ciclo; seconda classe della scuola
secondaria di secondo grado), oltre le incombenze che queste misure
costituiscono sotto l’aspetto puramente organizzativo, richiama un tema
di natura metodologica attinente al rapporto tra insegnamento e
apprendimento, sul quale vale la pena
riflettere.
Le prove, infatti, correttamente intervengono sui livelli di
apprendimento dei ragazzi allo scopo di “effettuare verifiche
periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti”
(L.176/2007). Il nesso fatto risaltare dalla circostanza del
monitoraggio è tra ciò che gli alunni sanno o credono di sapere e il
cambiamento che in essi produce tale contenuto, se afferrato e
assimilato nel modo giusto (conoscenza).
In fondo la conoscenza è un processo di adesione alla realtà che non ha
alcuna utilità, se non di farcela comprendere meglio. E la comprensione
della realtà (storica, matematica, linguistica, ecc.) è lo scopo
dell’educazione, perché è quel fattore sintetico che rende presente
l’attitudine al giudizio, senza il quale non esiste il soggetto e
nemmeno l’oggetto. Conoscenza e giudizio in sostanza coincidono:
mediante la “grammatica dell’assenso” (per citare Newman) l’oggetto che
si mostra in prima istanza ad una certa distanza dal soggetto, può
essere scoperto o riscoperto nelle sue caratteristiche fondamentali (le
sue ragioni) ed entrare nello spazio del soggetto come elemento
costitutivo della sua stessa esistenza.
È questa la dinamica che coinvolge ogni essere umano nell’esperienza
dell’amicizia e dell’innamoramento, cioè quando l’altro entra a fare
parte dell’“io” non perché posseduto fino all’annullamento, bensì
guardato e compreso per ciò che è, per la sua finalità intrinseca. La
conoscenza si pone allo stesso livello, perché presuppone interesse e
simpatia verso ciò che si intende abbracciare con tutta la propria
personalità (implica una fatica sempre ripagata). La domanda dei
ragazzi: “A che cosa serve tutto questo?”, può sembrare brutale, se
formulata nella maniera più istintiva. Tuttavia nasconde una grande
richiesta di significato, cioè di comprensione del rapporto tra sé e
l’esistente, inteso come tutto ciò che si può manifestare davanti ai
loro occhi: lo studio, l’affetto per una persona, un accadimento
imprevisto.
Ritorniamo alle prove Invalsi e al loro contesto per chiederci fino a
che punto nella scuola possa oggi realizzarsi il passaggio dalla pura e
semplice constatazione della realtà al giudizio su di essa che ne
rappresenti tutte le dimensioni dalla quale è costituita. Pensata
originariamente come luogo in cui la tradizione culturale del popolo
potesse trasmettersi alle giovani generazioni attraverso l’esercizio
graduale del giudizio (dalla prima alfabetizzazione all’adempimento
della facoltà critica), la scuola europea (italiana in particolare)
subisce l’impoverimento indotto contemporaneamente dalla
statalizzazione del suo assetto e dalla riduzione del lavoro che vi si
compie a funzione sociale (poco più che un servizio, per quanto
importante, come i trasporti, la comunicazione, la rete energetica). La
professione docente in questo quadro è assimilata a quella di chi
esercita compiti di natura sociale piuttosto che culturale. Al presente
è molto richiesto, anche dalle famiglie, quello della preservazione del
quadro di valori e doveri formali inscritti nella categoria della
“legalità”.
La centralizzazione del sistema educativo non paga, tuttavia, come
dimostrano i confronti internazionali, rispetto ai quali la scuola
italiana si è dimostrata per lo più in ritardo nella preparazione dei
giovani. Laddove i parametri Ocse sono stati raggiunti, il merito è da
attribuirsi al dinamismo di scuole (dirigenti e insegnanti) che hanno
saputo esercitare al meglio la capacità di muoversi in autonomia
proprio nei confronti di un’ingombrante burocratizzazione.
Di conseguenza, viviamo dal punto di vista del sistema scolastico nello
spazio del paradosso, perché si vorrebbero compiere percorsi di
personalizzazione dei contenuti disciplinari (vedi prove Invalsi) senza
che siano messe in discussione le coordinate culturali che ne
impediscono la compiuta effettuazione. Si dimentica, per una scelta di
comodo, che la persona dell’alunno può essere accesa di interesse per
un oggetto se lo vede fatto risaltare nello spazio della persona del
docente che lo propone alla classe. I documenti ministeriali sfiorano
il problema, senza risolverlo, quando accennano ai “contenuti di
apprendimento”, presupponendo nella formulazione in “didattichese” che
le materie che si insegnano a scuola sono oggetti di conoscenza nella
misura in cui diventano fonte di apprendimento, ovvero di studio
critico e appassionato.
Il paradosso nel quale ci troviamo (tutto l’ambiente scolastico è
paradossale: basti pensare al fenomeno dell’aumento della voluminosità
dei libri di testo a fronte di un continuo appello alla essenzialità
dei curricoli) può essere tuttavia un’interessante occasione di ripresa
del senso stesso del fare scuola da parte di una soggettività adulta
che entra in campo per assumersi la responsabilità di comunicare il
proprio modo di rapportarsi a tutta la realtà. Questo è il punto: la
libertà di educare (in questo consiste l’assunzione di responsabilità
verso l’impresa-scuola da ri-costruire ogni giorno) è oggi più che mai
un metodo di lavoro che si può realizzare subito, e non tanto un
orizzonte che attente chissà quale condizione per delinearsi.
Alla domanda di apprendimento che abbiamo visto essere tipica della
situazione attuale, in cui sono saltati tutti i consueti parametri di
riferimento (i programmi, l’organizzazione, la disciplina) si risponde
facendo ricorso ad una soggettività matura che non delega a qualche
meccanismo esterno, magari una didattica aggiornata con le nuove
tecnologie, il compito che l’attende. L’apprendimento è possibile
dentro un rapporto vivo tra chi propone un percorso nella realtà
attraverso ciò che insegna e chi lo verifica come buono e valido per
sé.
In questa prospettiva, che meriterebbe di essere documentata più
ampiamente, sono recuperati e rilanciati tre fattori sostanziali
dell’azione educativa che possono esercitare anche un ruolo di
innovazione nell’attuale fase di cambiamento di alcuni nodi del sistema
di istruzione.
Anzitutto il valore della tradizione come insieme dei significati sui
quali è stata costruita la forma di convivenza della comunità, che
nella scuola non può essere semplicemente richiamata, ma occorre sia
rivissuta come ipotesi di senso che attraversa tutta l’attività
scolastica, dai curricoli di studio alla realizzazione di una piena
parità scolastica.
In secondo luogo, il rapporto tra materie di studio e discipline
scolastiche, da riproporre continuamente perché il dato da apprendere
(la “materia”) richiede un metodo (“disciplina”) che tenga conto della
specificità dell’oggetto e della capacità di chi apprende di tenere il
passo della realtà che si mostra e si approfondisce nella sua
unitarietà.
In terzo luogo, il fattore-scuola inteso come insieme di condizioni
spazio-temporali che non devono essere date per scontate o dimenticate,
ma abbracciate con la stessa intensità con cui si guarda al più piccolo
elemento che rende la scuola un ambiente vitale; non solo e non tanto
perché obbligatoria e formativa (almeno fino ad un certo punto), ma
perché corrispondente ad una sfida che nel paragone continuo sviluppa
la personalità. (di Fabrizio Foschi da www.ilsussidiario.net)
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