Perché questo libro. Bambini ad altissimo potenziale intellettivo
Data: Venerdì, 15 aprile 2011 ore 12:00:00 CEST Argomento: Rassegna stampa
C'è una sofferenza
perlopiù ignorata in Italia e nel mondo: quella dei bambini ad alto e
altissimo potenziale intellettivo. Sono il 3% della popola-zione, sono
diversi.
Hanno un pool non comune di capacità percettive e intellettive, ma
anche di «sensibilità»: quel mix ancora poco definibile che permette di
intuire, em-patizzare, soffrire, gioire. Di questo mix noi vediamo la
risultante, che tendiamo a interpretare prevalentemente dal punto di
vista cognitivo: quella punta di iceberg che chiamiamo intelligenza.
Mentre gli altri faticano per comprendere il valore dei numeri, loro
eseguo-no operazioni aritmetiche e risolvono problemi che nessuno gli
ha proposto, ma che vedono spontaneamente nella vita quotidiana. Papà e
mamma escono, restano nonni e zia? In quella stanza c'erano cinque
persone, ora ce ne sono tre, perché due sono andate
via.
Spesso tra i due anni e mezzo e i tre anni cominciano a leggere e
qualche anno dopo, mentre gli altri arrancano sulle letterine,
potrebbero divorare libri interi e, a casa, spesso lo fanno, talora di
nascosto, quando i grandi temono che si rovinino la vista o che non si
godano la loro età. Imparano di solito a leggere ad alta voce: per loro
la lettura a mente può restare a lungo un miste-ro e quando arriva,
fulmine di comprensione, è una scoperta felice. «Leggo dentro!» gridava
a tutti una piccola bambina, ma nessuno capiva, nessuno si interessava.
Lo stupore a quell'indifferenza la bambina lo ricorda ancora adesso,
che di anni ne ha sessanta!
La gente, di solito, non sa che cosa pensano questi bambini. Neppure i
loro genitori. Neppure gli insegnanti. Gli adulti hanno troppo spesso
bisogno di credere di conoscere i bambini per stare a verificarlo.
Racconta un'ex bambina superdotata: «Io a tre anni avevo un problema
che non ho risolto neppure adesso. Se tutti indichiamo con lo stesso
nome un colore, per esempio il verde, come farò a sapere se gli altri
lo vedono diverso da come lo vedo io e a capire che cosa vedono? Ma a
quell'epoca di questo problema non avevo parlato con nessuno. Forse
perché non sapevo che si potesse discorrere di queste cose con i
grandi. Loro dicono: mangia, dormi ... Non dicono mai: come lo vedi il
verde?».
Molti credono che Fa.strazione non appartenga a bambini che abbiano
meno di otto anni. Come la mettiamo con quello di tre anni che, quando
mi ha sentito dire ai suoi genitori: — Per lui devo pensare un percorso
diverso», ha chiesto: «Mi fai fare un viaggio?» e io .< Si. ma non
con i piedi» e lui: «Col pensiero?».
Un giorno questi bambini entrano a scuola, generalmente felici,
convinti che impareranno, leggeranno. scriveranno, scopriranno un mondo
nuovo e capiranno un sacco di cose. E troppo spesso questo è l'inizio
dei loro guai. Alcuni genitori li mandano dallo psicologo. I più
illuminati dallo psichiatra. Di solito, questi professionisti non sanno
di bambini iperdotati: da troppi decenni si parla solo di disabilità.
Cosi tendono a vedere solo, o soprattutto, i difetti o i disagi di
questi bambini, definendoli in una prospettiva limitata e limitante.
Non ama stare con i compagni Disturbo relazionale. Si agita dentro o
fuori dal banco? Iperattività. Preferisce stare solo a leggere
nell'intervallo piuttosto che correre con i compagni? Forse Asperger.
Ricordo un bambino di quattro anni che sapeva leggere, iniziava a voler
scrivere e ragionava con profondità non comune. Si annoiava molto alla
scuola dell'infanzia, e io ho cercato di concordare con le insegnanti
un lavoro che gli interessasse, diverso da quello in corso con la
maggior parte dei bambini. La sconfortante risposta fu: «Il bambino è
emotivamente piccino, quindi l'obiet-tivo principale deve essere farlo
crescere affettivamente». Io credo che molti insegnanti preferiscano
pensare che i bambini devono crescere affettivamente, come se questo
fosse indipendente da un loro sviluppo intellettivo sereno, per non
affrontare nuovi orientamenti di lavoro, che forse ritengono molto più
complicati di quanto siano in realtà.
Ma a volte succede il contrario: talora l'ipotesi che un bambino sia un
genio è usata per mistificarne una patologia. Se un genio è spesso
strambo, allora uno strambo, se è un genio, è sano. Così alcuni bambini
disturbati vengono portati alla valutazione cognitiva, proprio per
dissipare, con la scoperta di un alto Q1, il dubbio che siano
disturbati. Come se una cosa elidesse l'altra.
Questo libro è stato scritto perché sempre più persone sentono il
bisogno di rimediare e far rimediare a un'ingiustizia pluridecennale:
quella ai danni dei bambini e dei giovani iperdotati intellettivamente,
cui ancora oggi, in Italia, non è offerta pari opportunità di
apprendimento e di equilibrata formazione della personalità.
Un'ingiustizia anche ai danni della nazione e, forse, del mondo, perché
è da questi bambini che potranno scaturire la vera saggezza, di cui il
nostro decantato progresso non gronda, e qualche soluzione nuova ai
nostri tanti problemi.
Due testimonianze
Ecco qui di seguito le testimonianze, i ricordi d'infanzia, di due
donne, ex bambine intellettivamente superdotate, che oggi hanno
entrambe cinquant'an-ni: Chiara e Lidia.
Il racconto di Chiara
La mia infanzia è viva nella memoria, la risento intatta dentro, come
chiusa in una scatolina. La mia infanzia è una mandorla ben difesa,
fragile sotto il guscio. Ho memorie antichissime. Mi svegliavo felice:
ricordo la gioia di ritro-vare il mondo ogni mattina, a due anni. E il
dubbio: qual era la vita vera, quella al di là o quella al di qua del
sonno?
Ricordo gli stati d'animo delle persone. Forse perché li avvertivo così
fortemente, ben prima di imparare a parlare, mi sono rimasti nella
memoria quasi come se fossero loro le forme visibili. Anche adesso di
ognuno mi restano impressi più l'atmosfera che la forma, più lo sguardo
che gli occhi.
Ricordo il dispiacere tremendo dopo aver calpestato un pulcino. Te-mevo
di averlo ucciso, benché non avessi mai visto un morto, anche se mi
dicevano che il pulcino stava benone ... Un giorno ho schiacciato la
coda al gatto, e andavo in giro chiedendo angosciata: «Ce l'ha ancora
la sua ciodina il tuo ciatto?».
Questa capacità di identificarmi con gli altri e avere coscienza del
dolore altrui, reale o possibile, non mi ha mai abbandonato.
Avevo le letterine dell'alfabeto in casa. Ricordo la gioia infinita se
qual-che amico di famiglia stava con me a giocarci sul pavimento. Avevo
due anni e mezzo quando imparai a leggere. A cinque avevo letto una
libreria intera, molti titoli li ricordo ancora: La storia di Sofia, La
storia di Susanna, Il Re Moro, I delfini, Pollicina, Il giro del mondo
in ottanta giorni... Le storie continuavano nel mio pensiero e
crescevano insieme a me.
A sei anni leggevo, facevo a mente le operazioni a due cifre, scrivevo
poesie e racconti. Contavo i libri che avevo letto, come Paperone le
monete d'oro: erano 105. Mandarmi a scuola sarebbe stato strano: il
programma della prima classe l'avevo strafinito. Cosi, a scuola, non mi
mandarono. Non per questo mi avevano fornito di insegnanti. Stavo a
casa, semplice-mente. E leggevo di tutto. La prima volta che entrai in
una scuola fu per l'esame di ammissione alla terza elementare. Ero in
una classe e dovevo scrivere dei compiti. C'era rumore: vocette cui non
ero abituata. Me ne ero lamentata con la maestra. E lei: «I bambini
oggi hanno dovuto cambiare la loro giornata per permettere a te di fare
resame. Devono stare molto più in silenzio del solito. perché ci sei
tu». Rimasi folgorata: avevo scoperto anche il punto di vista altrui!
Dopo l'esame, di nuovo a casa Fino alla quinta. Quella l'ho
frequen-tata. Ormai avevo letto una biblioteca Avevo letto anche i
volumi proibiti della libreria di famiglia, per esempio le poesie di
Leopardi. A lui devo una scoperta fondamentale: anche gli adulti
sbagliano. Dopo aver sognato sull'Infinito, danzato con la donzelletta
e invidiato uno che scriveva di astronomia ancora piccolo, ho pensato
che avevano fatto male a proibirmi una lettura così bella, così pura.
Quindi. i grandi avevano sbagliato: non dovevo più dare per scontato
che fosse giusto quello che dicevano, ma vagliare da sola il bene e il
male. Ciò mi autorizzava a pesare io stessa le mie decisioni, a nove
anni. La coscienza che tutti possiamo sbagliare, la convinzione che è
meglio farlo in proprio che su delega, la capacità — o il bisogno — di
decidere autonomamente sono sempre rimasti intatti.
A scuola ero sempre sorpresa. Prima di tutto delle limitazioni. Le
tabelline si fermavano a quella del 10. I compiti proposti, di una
banalità sconcertante. Intuivo che i bambini scrivevano perlopiù quello
che la maestra voleva. Questo mi stupiva, come certi disegni stereotipi
e quei raccontini di uccellini e assurdi animaletti dolcificati. Come
le descrizioni semplificate di cose che a quel livello mi erano
arcinote, tipo le stagioni. Con tutto quello che si sarebbe potuto
leggere e scoprire!
I libri di scuola li avevo finiti tutti subito. Mi pareva strano che li
dessero a pagine, come le medicine a gocce. E mi rattristavano le
ingiustizie, come un cactus che sorgesse all'improvviso in un'aiuola di
viole. Prima di tutto quelle della maestra, che mostrava antipatie e
simpatie.
Alla recita di fine anno, una bella bambina che andava a scuola di
danza si stava preparando in gran fretta. Avevo fretta anch'io, ma lei
voleva la precedenza al trucco: «Se non ci sono io non si fa niente, se
non ci sei tu non se ne accorge nessuno». Caspita, era vero! L'emozione
della scoperta non permetteva gran frustrazione: avevo imparato che
esistono ruoli importanti e ruoli secondari. La gioia sorpresa di
capire qualcosa di nuovo azzerava anche le emozioni spiacevoli!
Eppure anch'io avrei voluto danzare, ma la mia era una di quelle
fa-miglie in cui tutto pareva una sciocchezza. Per fortuna ho avuto
bisogno di ginnastica correttiva. Una volta fece supplenza la maestra
di ritmica, e non mi lasciò più perché, disse, ero bravissima. Credo
fosse perché io interpretavo le musiche, le traducevo in emozioni col
movimento. Ricordo perfettamente quando capii il ritmo, a poco più di
tre anni. Mi avevano parcheggiato da qualche parte, in una stanza dove
i bambini cammina-vano su un filo disegnato per terra al ritmo di
musiche suonate al piano: mutava la musica, mutava il passo. Qualche
momento di smarrimento, poi, la folgorazione: ecco il ritmo, camminare
a tempo, a tempo anch'io! Il senso del ritmo non mi ha più abbandonato
da allora. Un attimo prima non sapevo neanche cosa fosse, un attimo
dopo ero perfettamente sin-tonizzata. La comprensione è come un bottone
automatico che si fissa: tac! Una verità nuova fa parte dite. Qualunque
cosa facessi, ero immedia-tamente bravissima. Gli insegnanti mi
lodavano, ma poi si ripeteva ogni volta la stessa cosa: gli altri erano
più lenti e io intanto mi scocciavo, un po' delusa, senza sapere
perché. L'entusiasmo evaporava e smettevo di applicarmi. Dopo un po',
spesso, gli altri diventavano più bravi. Ora so che mi demotivavo
perché le prime lezioni erano in sintonia con i miei tempi, visto che
partivo da zero, poi niente mi corrispondeva più e mi sentivo a
disagio. Spesso abbandonavo il campo.
La scuola: una noia sconfinata. Imparai a cantarmi delle filastrocche,
mentre la maestra parlava, per ingannare il tempo. Le filastrocche
lasciavano spazio mentale sufficiente a rispondere se mi interrogavano
e insufficiente a distrarmi del tutto. Un vizio pericoloso, però, che
non mi sono del tutto tolta. Io non studiavo mai, non sapevo che cosa
volesse dire. Dall'esame di ammissione alle scuole medie, che allora
era una cosa seria, uscii con voti altissimi e con una borsa di studio.
Non mi ero affatto accorta di aver fatto bene. Per me era sempre tutto
normale. Ma quella mattina imparai a imitare il verso delle foche, che
gridavano dallo zoo adiacente, e ne fui molto divertita. Intanto altri
bambini andavano dicendo di aver studiato molto: che fatica! Io non
capivo che cosa significasse, ma non mi passava per la testa di
chiederlo, forse pensavo che mi avrebbero considerato ancora più
diversa. Ma la sensazione era che il mondo degli altri fosse da
guardare, non da entrarci. Non facevo parte del gruppo e non ne
soffrivo: era un dato di fatto. Di me, dei miei pensieri, non dicevo
niente a nessuno: l'avevo proprio deciso, verso i sei anni. Tanto
scarsa era la corrispondenza che trovavo negli altri, che mi ero
determinata a non esprimere più niente. Per fortuna a quei tempi i
maestri non facevano diagnosi, ti pigliavano come eri. Ricordo la
delizia di leggere per conto mio, senza quelle domande seccanti: chi è
il
che mi fa i complimenti per la profondità di una ricerca, quando la
stessa è stata condotta in tre quarti d'ora di riflessione sul tram? Ma
mi sbagliavo. Quello stesso professore, quando in giugno gli ho detto
che non avevo mai studiato e mi ritiravo, mi ha detto: «Tu? Anche se
cominci a studiare adesso, prendi tutti otto». E così fu. Grazie,
professor Oderzo.
La media dei voti presi alla maturità era abbastanza buona da
permet-termi una borsa di studio. Io so che ho traversato la scuola e
poi l'università senza quasi mai studiare davvero, abituata com'ero a
un «last minute» più che sufficiente. Così certe cose, semplicemente,
non le imparavo. Anche la noia era un'abitudine. Anche fare dell'altro
isolandomi dalle spiegazioni ripetitive è diventata un'abilità
acquisita: posso non sentire affatto qualun-que voce o rumore. Se lo
decido e talora anche se nonio decido.
Dell'università ricordo in modo particolare un momento: quando,
cercando di stare con i miei compagni, mi sono accorta di non poterlo
fare: non avevo il loro linguaggio, semplicemente. Mi ero persa quelle
esperienze quotidiane che permettono di capirsi. Assodato ciò, mi sono
messa d'impe-gno ad ascoltare, e in breve ho imparato. Ora comunico
anche con i sassi, ma sempre adeguandomi e ripiegando le «antenne».
Talora, dirado, incontro qualcuno con cui si può volare ad ali
spiegate. È bello quando succede.
Di mestiere faccio quello che ho sempre fatto: osservo e cerco di
capire gli altri senza pretendere che possano capire me. Come
giornalista ho un buon successo, ma so che ne potrei avere di più, se
non ci fosse l'insop-portabile noia nello stare a spiegare a chi non
capisce, l'insofferenza a stare dietro ai ragionamenti stupidi di quasi
tutti quelli che poi ti devono approvare. Per raggiungere una grande
fama devi rinnovare ogni momento il plauso di persone di solito meno
intelligenti di te. Non dico che non mi piacerebbe, ma per me questa
strada è intollerabile: ci sto dentro per un po', poi non ne posso più
e mi allontano. Come quando ero piccina.
Il racconto di Lidia
Non avevo ancora quattro anni (sono nata a novembre) e, a passeggio con
papà, leggevo tutte le insegne, scandendo le lettere e pronunciando poi
le parole complete sotto gli occhi attoniti dei passanti. Un giorno di
quell'estate, al bar del lago, sillabavo il nome di tutti i gelati a
voce alta e la gente, a mo' di fenomeno da baraccone, mi portava cose
da leggere per fare la controprova: pensava che io me li fossi studiati
tutti a memoria. Ero stupita di tutta quella popolarità; ma perché, mi
chiedevo io, chi non sa leggere? Il mio «Corrierino dei piccoli» era
lettura e rilettura, finiva subito e dovevo aspettare la settimana
successiva per il nuovo numero, e poi i miei «Topolino», quanto poco
duravano! E i miei libri di favole? Buon viaggio rondinella, Vacanze
con l'orso, ma poi anche qualcosa di più impegnativo, Cosetta,
Incompreso, per il quale versai fiumi di lacrime. Avevo difficoltà a
pronunciare la gn e suscitavo l'ilarità di mio padre: era sempre
«ghnomo» che mi usciva e «castaghna». Quando andai all'asilo — la
scuola materna allora si chiamava così —,non riuscivo a capire perché
ci facessero attaccare su un album farfalle e foglie e cestini di fiori
con un fiore, due fiori, molti fiori. Sapevo contare perfettamente fino
a cento e trovavo sciocco che ci facessero capire il concetto di poco e
di tanto in quella maniera: uno è poco, mentre 10, 200 100 sono tanto e
di più. Anche la tombola mi sembrava un gioco alquanto bizzarro: la
suora estraeva il numero e le assistenti andavano dai bambini a vedere
se sulla loro cartella c'era quel numero o no, ma io il numero lo
sapevo riconoscere e il mio fagiolino era già lì quando qualcuno
arrivava ad aiutarmi. Con i compagni e le compagne non condividevo
molto i giochi, mi annoiavano perché era altro ciò che mi piaceva:
leggere e ripetere a memoria e le parole erano vive dentro di me ... mi
parevano splendenti, non potevo dimenticarle. La suora mi predisse che
da grande avrei sofferto per questa mia naturale tendenza alla
solitudine.
A scuola l'unico intoppo fu il corsivo: io scrivevo in stampatello
veloce. Ma una volta imparato il gesto fluente della scrittura scrivevo
e scrivevo. La maestra raccontava cose che mi piacevano e dava poesie
da studiare a memoria che io ripetevo perfettamente dopo la dettatura!
La noia era sui «conti». Singolare per me fu imparare le tabelline fino
al 10: non mi capacitavo che il mondo dei numeri si fermasse al 100, io
sapevo anche quelle fino al 12 e mi ero fatta quelle più avanti. Che
meraviglia poi mol-tiplicare, dividere a mente e fare a gara a chi
arrivava prima! Mi ricordo che la maestra si arrabbiava perché
precedevo sempre le mie compagne.
A me piaceva leggere a voce alta. senza intoppi e con espressione:
miri-usciva bene, avevo capito che gli occhi potevano essere più veloci
dellavoce, così mentre l'una si attardava a dire, gli altri correvano
avanti a esplorare il testo. La maestra, un giorno, chiamò il direttore
per fargli sentire come leggevo e mi ricordo che andai alla ricerca di
un racconto che mi piaceva tanto e che stava in fondo al libro di
lettura. Non lo trovavo e la maestra, con malagrazia, mi disse di
sbrigarmi. tanto uno o un altro era lo stesso. Io mi offesi. Quella era
la lettura che volevo far ascoltare al direttore, non una qualsiasi!
Insomma, un giorno chiamarono la mamma e le chiesero se voleva farmi
saltare la prima classe. Non so se mamma capì quello che le stavano
proponendo. Spiegò alla maestra che io non sapevo scrivere in corsivo:
forse era meglio lasciarmi in prima. A me non importava molto: la
scuola mi piaceva tutta, il mio sussidiario conteneva tante materie da
poter studiare e leggere e il giorno non era mai lungo abbastanza.
Sapevo stare sola con me, anche se cominciavo a trovare divertente
chiacchierare con qualche amichetta.
I compiti a scuola li finivo subito, poi aiutavo le mie compagne, anzi
era la maestra che me lo chiedeva, così stavo buona e potevo girare per
l'aula, senza darle fastidio. Sul quaderno dei ricordi la maestra mi
scrisse: «Sei una bambina tanto vivace e intelligente, ma troppo
birichina. Mi prometti che diventerai più buona?». Ma io mica ero
cattiva.., era lei che continuava a dirmi di stare ferma e zitta.
A casa non mi ricordo di avere dato grattacapi, anzi la mamma mi
ca-ricava di incombenze che a ben pensarci erano troppe per me, piccina
di nove anni. Del resto nel giro di un semestre ci furono la malattia e
la morte della zia, la contesa della cuginetta rimasta orfana, la morte
del nonno per incidente stradale, l'incidente del fratellino più
piccolo con la corrente elettrica, il dramma di dover sistemare la
nonna rimasta sola e incapace di badare a se stessa. Vedevo e
comprendevo tutto questo dolore e piangevo di notte, in segreto, mai
davanti a mamma e papà. Mi ero ripromessa di essere dura e forte
altrimenti, secondo me, non avrebbero retto a questa catastrofe
familiare.
Il fratellino, poverino, decisi che dovevo crescerlo io: lo portavo al
parco, ai giardini, sulla macchinina a pedali, sullo scivolo, sulla
giostra, anche se si sporcava. Mamma non voleva, perché lo vestiva
tutto di bianco! Tornati a casa lavavo i vestitini sporchi di terra e
di gelato e lucidavo le scarpine col bianchetto, così la mamma non si
accorgeva di nulla. Il mio pensiero era questo: tu giochi, ti sporchi,
cresci giusto. Io lavo, stiro e mamma non sa.
Ho imparato presto che cosa vogliono dire incomprensione e dolore e,
tutto sommato, la mia precocità mi ha dato una grande mano, non voluta,
non cercata. Comunque ritengo che tutti questi siano dei doni speciali,
che mi permettono di «sentire» gli altri, mentre provo una gran
nostalgia per la mia memoria, davvero prodigiosa, che non ha voluto
invecchiare con me.
Lidia, ora docente universitaria, ha conservato lo stile di quando era
pic-cina: si pone silenziosamente a servizio per risolvere le
situazioni senza farlo pesare. Ma, come quando era piccina, le pesa la
mancanza di un riconoscimento che non ha saputo sollecitare.
Superdotazione intellettiva e disabilità
La superdotazione intellettiva non esclude la presenza di una
disabilità fisica o di un disturbo psicologico. Così nota Giuseppe
Bertagna (2009, p. 962), ordinario di pedagogia generale all'Università
di Bergamo, direttore del Centro di ateneo per la qualità
dell'insegnamento e dell'apprendimento, che ha fondato nel 1985:
Poche persone oggi non gratificherebbero di superdotazione per-sonaggi,
ad esempio, come Isaac Newton, Wolfgang Amadeus Mozart, Hans Christian
Andersen, Vincent van Gogh, Winston Churchill, Pablo Picasso, Agatha
Christie, John F. Kennedy, Walt Disney, Chair, re Carlo di Svezia,
Whoopi Goldberg, Tom Cruise i ...I Mozart e tutti gli altri autori
prima citati non solo sono stati tutti dislessici (e una volta i
dislessici erano duri e reali, e non inflazionati come sono oggi,
grazie alla disinvoltura di troppi improvvisati diag,nosti che
scambiano le proprie inadeguatezze pe-dagogiche, investigative e
metodologiche per deficienze personali altrui), ma alcuni, oltre che
noti e impenitenti ubriaconi (si pensi a Churchill), furono anche
personaggi con rilevanti forme di disadattamento; anzi di vere e
proprie patologie. in parecchi campi della vita. «Superdotati» o
«disabili». dunque?
Precede Bertagna, in ordine di tempo. Alfred Adler, che descrivendo
l'inferiorità d'organo dimostra come essa possa motivare a compensare
un difetto ipertrofizzando un dono.
Una testimonianza
Ecco una miscellanea di ricordi di una giornalista nota, affetta fin
dall'in-fanzia da una malattia molto grave agli occhi che adesso Fila
resa quasi del tutto cieca.
La testimonianza di Laura
Primo giorno d'asilo. Cerco di fare conversazione con una bambina che
si sta arrotolando le calze: mi presento e racconto la situazione della
mia vicina di casa, che mi angoscia molto. Era appena rimasta vedova,
con un figlio ai salesiani da mantenere. Si avvicina la suora e mi
dice: «Il castello del re formaggino bebè». Forse aveva ragione lei, ma
io sono rimasta ma-lissimo. Non era l'ultima volta che qualcuno mi
avrebbe fatto restar male: alla fine vomitavo per non andare all'asilo.
Mamma racconta che ero ipersensibile ai dolori altrui. Le chiedevo di
fare un grembiulino ricamato come il mio a una bambina povera che
l'aveva rattoppato e nascondevo i guai che un mio compagno provocava
prenden-domenela colpa, perché non sopportavo dipensare che l'avrebbero
punito.
Ero sempre buona e mi premiavano facendomi passare la mattina nella
casetta delle bambole che era piena di giochi. A me non interessava,
non mi piaceva giocare alle bambole. Così ho fatto la cattiva per non
avere più il premio. E ci sono riuscita.
Mia mamma quando mi voleva sgridare mi chiamava Edvige, come una donna
che era ritardata mentale. Quando mi chiamava così io mi mettevo sotto
il tavolo, a quattro zampe, e parlavo come Edvige. Mia mamma mi diceva
di smetterla, e io: «Mi hai detto scema e sono diventata scema!».
Io però ho sempre pensato davvero di essere scema, perché non mi
sentivo come gli altri bambini e con loro ero a disagio. Reagivo
inventan-domi un sacco di giochi mentali. Ad esempio, c'era una
pubblicità in cui si vedeva una donna in piedi davanti a un bucato con
in mano la scatola del detersivo, su cui era disegnata la stessa donna
con in mano la stessa scatola. E io mi scervellavo: se nella scatola
c'è una scatola dove c'è una scatola, dove c'è una scatola, si arriva
all'infinito. l'infinito piccolo e quello grande. Sono due infiniti! E
poi: non possono esserci solo i colori che vediamo! Fammi andare sulla
luna, si vedrà qualche colore diverso.., e cercavo di immaginare altri
colori.
Mi raccontano che a un anno sono stata in punto di morte, e mia nonna
diceva: «Poverina, deve morire perché è troppo intelligente!».
Avevo imparato a leggere da sola, a tre anni, sull'elenco telefonico.
Mia nonna mi portava in giro a far vedere come leggevo bene tutto. Il
primo giorno della scuola elementare ho scritto subito una paginetta. E
la mae-stra: «Sei ripetente?». Ci sono rimasta malissimo. Più tardi la
maestra mi ripeteva: «Basta, fermati, aspetta gli altri!».
A casa mi davano l'antologia dei poeti del Novecento per farmi stare
tranquilla. E io imparavo a memoria Pascoli, D'Annunzio... Ma in classe
mi stufavo molto. Quindi non stavo mai ferma, mi capitava anche di
ro-vesciare il tavolo, per sbaglio, a furia di muovermi! Allora mi
mettevano a insegnare a leggere alle altre bambine, ed ero una
capogruppo prepotente. Ogni tanto, infatti, c'era qualche ammutinamento.
Però di pomeriggio pensavo i problemi p er i b ambini, oppure li
inventavo al momento, facevo i conti a mente e glieli davo da fare
scritti.
Arrivai al liceo senza la minima coscienza della femminilità e
altalenando fra la paura di essere scema, perché tante cose che le
altre facevano io non le sapevo fare — come truccarsi, chiacchierare
con i ragazzi, ballare —, e il sospetto di essere un genio. Ero molto
brava in disegno, e la professoressa mi portava alle mostre. Ma i miei
non ci sentivano: mi hanno mandato al classico. Allora, io studiavo lo
stesso, ma per un trimestre ho fatto scena muta e consegnato tutti i
compiti in bianco. A quel punto hanno ceduto: mi hanno iscritta al
liceo artistico.
Ho fatto la giornalista. Un'altra sfida contro la cecità che avanzava
lenta e inesorabile. Adesso non riesco più a scrivere neppure al
computer: detto al registratore e tutti si stupiscono perché non faccio
mai ripetizioni e le frasi sono compiute. È che mi sono abituata a
leggere i pensieri come fossero già scritti nella mente. Come disegnare
copiando qualcosa.
Mi ricordo che in prima liceo avevo scritto in un tema una storia in
cui la Maddalena era la sposa di Gesti: « Come tema meriti 10, ma io
per quello che hai scritto ti devo dare 'non classificabile- e
annullare il tema a tutta la classe, perché se questo tema venisse in
mano a qualcuno tu saresti espulsa da tutte le scuole... ». Erano gli
anni Sessanta. Se penso a Dan Brown ...
Ho continuato a sentirmi inadezuata. E lo ero: risolvevo i problemi di
matematica a tutta la classe, ma non sapevo scegliermi un vestito. La
su-perdotazione è fatta di montagne e avvallamenti profondi, nella
normalità invece ci sono tante colline.
Chissà se mi avessero coltivato meglio. se avessero seguito le mie
in-clinazioni e i miei tempi. la mia vita sarebbe stata diversa. In
realtà sono rimasta un po dittatoriale, abituata a essere il top, cosa
che non è sempre vera. Sono cosi come ero. seguo le mie fantasie e i
miei pensieri, e i giochini li invento ancora, peri giornali, ma non
c'è una grande differenza!
Io credo che il genio abbia accesso agli archivi del mondo, che metta
insieme ciò che c'è nella mente degli altri e nell'aria e gli dia una
forma. Laura ha impostato sin dalrinfanzia uno stile di vita fondato
sulla sfida. Quasi cieca, ha fatto il liceo artistico e fa la
scrittrice. Ha rifiutato il limite, for-tificandosi ma nello stesso
tempo condannandosi. Se fosse stata compresa, in che cosa sarebbe
cambiata la sua vita?
(da http://affaritaliani.libero.it)
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