La ricerca non trova merito
Data: Mercoledì, 13 aprile 2011 ore 11:00:00 CEST Argomento: Rassegna stampa
Antonio Scarpa ha
un compito arduo, ma strategico. Ogni anno, grazie a una squadra di 500
ex professori universitari alle sue dipendenze, e grazie alla
collaborazione di 30mila scienziati, deve esaminare 100mila domande di
finanziamento alla ricerca medica.
«Il sistema della peer review – spiega Scarpa, che dopo essersi
laureato a Padova nel 1966 ha avuto una lunga carriera nella ricerca e
nell'insegnamento – funziona a meraviglia: solo i progetti migliori
ottengono fondi. Non ci sono concorsi, o finanziamenti fissi per
università o aree geografiche: conta solo il merito. In ballo, ci sono
31 miliardi di dollari». Come avrete capito, Scarpa non lavora in
Italia. È il responsabile del Center for Scientific Review del NIH, il
National Institute of Health americano.
La peer review – scienziati che valutano il lavoro degli scienziati –
in Italia praticamente non esiste. I finanziamenti statali, circa l'1%
del Pil e circa la metà dei maggiori concorrenti europei, vengono
distribuiti senza il metro del merito, che pure la contestata riforma
Gelmini tenta di
introdurre.
E fra stipendi magri, ricercatori che invecchiano in attesa di un posto
e un sistema dove la burocrazia è semplicemente opprimente, i cervelli
non sono incentivati come dovrebbero. Alcuni fuggono. Alcuni lottano lo
stesso in laboratorio. Ma tutti sognano qualcos'altro. «Chiudersi nella
propria ricerca, pubblicare sulle riviste più prestigiose, viaggiare:
solo così ci si sente parte di un mondo stimolante, dove si viene
giudicati per quel che si vale», dice Francesco Sylos Labini, coautore
di I ricercatori non crescono sugli alberi, non un cahier des
doléances, ma un libro che incita l'Italia a cambiare.
È un disastro? Beh, non proprio. «Nel numero di pubblicazioni per
ricercatore siamo ai vertici mondiali», ricorda Franco Miglietta,
dell'Istituto di Biometeorologia del Cnr. Nel 2009, l'Italia era nona
nella computer science, ottava nalla fisica, settima nella biochimica e
nelle neuroscienze, sesta nella matematica: una performance da paese
del G8. «Sono pochi scienziati molto produttivi che tirano la
carretta», sentenzia Miglietta.
La classifica «Top Italian Scientist», facilmente reperibile sul web e
pubblicata l'anno scorso da due ricercatori emigrati, ha fatto un certo
baccano e molti la considerano controversa: è la lista dei ricercatori
italiani, inclusi quelli all'estero, che hanno un H-index superiore a
30. L'H-index serve a calcolare la produttività scientifica di un
ricercatore (ma anche di un istituto, o di un paese) tenendo conto del
numero di pubblicazioni sulle riviste internazionali, tutte
rigorosamente peer-reviewed, e di quante volte sono state poi citate da
altri: più o meno, quel che fa Google con il suo algoritmo per
indicizzare le pagine web. Ma gli scienziati italiani con un H-index
superiore a 30 sono oltre 1.800. Non pochi: tanti.
La ricerca è una competizione, ma non fine a se stessa. La ricchezza
delle nazioni dipende ormai anche dalla scienza. «C'è un'evidente
correlazione fra la la spesa in ricerca e il tasso di crescita
dell'economia», ammette Luciano Maiani, il fisico che dal 2008 presiede
il Cnr. «L'innovazione deve partire dalla ricerca, per poi propagarsi
al sistema industriale. Gli investimenti statali sono sotto la media
europea, ma non terribilmente. Semmai, qui da noi i privati investono
in ricerca appena lo 0,3% del Pil e questo dato è assai inferiore che
all'estero».
Tuttavia, i Governi che si sono succeduti negli anni non hanno
dimostrato di comprendere la relazione fra ricerca (inclusa la ricerca
di base, non solo quella applicata) e crescita economica, come succede
nel Regno Unito o in Germania. C'è forse bisogno di un capo
dell'esecutivo laureato in fisica come Angela Merkel? «Tony Blair non
era un fisico, ma ha fatto un'eccellente riforma universitaria»,
risponde Maiani. «Ma se ci fossero dubbi – osserva Miglietta – non si è
mai visto un paese dove il Pil cresceva mentre gli investimenti in
ricerca calavano». E qui sta il nodo. Un alto H-index riflette, per sua
stessa natura, i successi scientifici del passato. Il piazzamento
tutt'altro che onorevole delle università italiane nelle classifiche
mondiali, è un promemoria del presente. Così, quando si parla del
futuro della ricerca italiana, salta agli occhi un chiaro deficit di
lungo periodo.
La scienza è diventata un'impresa globale. Ci sono 7 milioni di
ricercatori nel mondo e la spesa internazionale in ricerca e sviluppo
ha superato i mille miliardi di dollari (+45% sul 2002). Oggi che siamo
nella cosiddetta "Economia della conoscenza", il sapere è una variabile
imprescindibile della competizione. E il sistema italiano sfavorisce –
senza appello – la categoria più strategica per questa disfida della
conoscenza: i giovani. «I cervelli sono come i calciatori: i goal si
fanno per una quindicina d'anni, non di più. Chi è bravo e non ha una
squadra dove giocare, se ne va altrove», osserva Maiani.
Ecco perché il mestiere di Antonio Scarpa è strategico (per gli
americani). Perché è il trionfo della meritocrazia. «Se i ricercatori
ottengono i finanziamenti – spiega lui stesso – l'NIH ne versa più o
meno altrettanti alle università dove questi lavorano, per coprire i
costi amministrativi. Le università vengono sostenute dai fondi
federali solo così: ecco perché fanno tutte a gara per assoldare i
ricercatori migliori». Il sistema italiano invece, non difetta solo di
meritocrazia e competizione. Gli manca anche la flessibilità. «C'è uno
spaventoso carico burocratico non solo per ricevere i fondi statali, ma
anche quelli europei», lamenta Alberto Mantovani, prorettore alla
ricerca all'Università di Milano. «E l'articolo 18 della legge Gelmini
ci ostacola perfino nell'assumere un tecnico per un progetto di due o
tre anni». (da IlSole24Ore)
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