Per non diventare la generazione perduta: Il 9 aprile “Il nostro tempo è adesso!”
Data: Venerdì, 08 aprile 2011 ore 09:12:52 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Sabato di molte città, 9 aprile. Il nostro tempo è adesso. E tempo non ce n’è più. La nazione infranta, piegata da profonde disuguaglianze sociali, nella condizione dei suoi giovani ritrova uno specchio e si vede in tutta la figura, sul crinale tra rilancio e declino. Giovani di larghe vedute e competenze, risorse reali e attuali per intraprendere vie “nuove” (avanzate, sostenibili) allo sviluppo, che invece vivono le pene della ricerca di un lavoro o che alla fine “disertano”, verso marginalità sociali e civili, oppure fuggono dall’Italia immobile. L’istantanea di una generazione è nei dati che misurano i pesanti effetti della crisi sull’occupazione: un calo tutto concentrato sulle fasce d’età giovanili, e aggravato da un sistema di protezione sociale inadeguato e incompleto, squilibrato tra soggetti colpiti e tutele.
Precari, certo – di una precarietà che assume valenza esistenziale e caratterizza l’epoca (insomma, il tempo amaro) che viviamo – ma non solo: giovani sofisticatamente sfruttati; giovani a cui la crisi ha inesorabilmente sbarrato le porte d’accesso aunlavoro all’altezza di sé, delle proprie ambizioni e di quelle del Paese – se solo questo Paese ambisse ancora a qualcosa… L’opinione pubblica è povera persino di strumenti conoscitivi per cogliere questa stato delle cose, e insegue decimi di percentuali ad ogni bollettino Istat sul tasso di disoccupazione giovanile, per poi sprecare commenti e ammonire (rinfacciando al governo più gravi responsabilità o, dal governo, per cavarsi dall’impaccio di cuori rubati, corpi venduti): “un giovane su tre è disoccupato”, “questi sono i giovani di cui dobbiamo parlare”! Dato allarmante, che però riguarda una fascia ridotta (15-24 anni, in larga parte a scuola o all’università) e ne nasconde altri più drammatici e eloquenti: come il tasso di occupazione. Per la Svimez, nel 2010, meno di un giovane su tre, tra i 15 e i 34 anni (fascia che comprende l’intera fase di ingresso sul mercato del lavoro anche dei giovani laureati e altamente qualificati), al Sud, ha un’occupazione. E nel caso delle donne, meno di una su quattro. Una generazione che rischia di essere “perduta” in patria. Come “perduti”, per la patria, sono tanti eccellenti “fuorusciti”. Patria che non arriva a Lampedusa. Ecco perché non è più tempo di ascoltare giaculatorie e frasi – come “il futuro è vostro”, “poveri ragazzi, vivrete peggio di noi”, “andatevene, questo Paese non vi merita” – di un inaccettabile paternalismo (che si perverte sempre nell’Italia familista e nepotista) e gravemente irresponsabili se pronunciate da una classe dirigente che, nella condizione dei giovani (e quindi dell’Italia tutta), dovrebbe misurare tutto il suo fallimento.“ Abbiamo fallito”, riconoscono pure alcuni, con gran sospiro e molto vezzo. Ma sbagliano i tempi: il fallimento non è l’essere stati non all’altezza delle aspirazioni di gioventù (qui si fallisce, per definizione), ma è l’incapacità di incidere sul presente, di preparare un avvenire, pur detenendo le leve del “comando”. Il nostro tempoè adesso, e bisognerà pur dire: “a cose nuove, uomini nuovi”. Da questo gran ripasso del Risorgimento, abbiamo imparato che “erano tutti ragazzi”… Ora, nel difficile risveglio dal sonno e dalla sbornia berlusconiani, le generazioni penalizzate – quelli che avevano diciott’anni quando è “sceso in campo” e quelli che hanno diciott’anni adesso – non possono più giocare alla truffa del domani. Troppo lunga la stagione in cui tempo s’è fermato, rimandando il futuro sempre un po’ più in là. Esarà bene vedersi in faccia, domani, nelle molte piazze italiane. Per vedere su chi si può contare, più che per contarci. Se saremotrecento, parremo tremila. Esserci per i ragazzi che in questi anni si ribellavano a Palermo e Locri (o a Castelvolturno)o che soccombevano a Rosarno; per quelli che dieci anni fa erano a Genova e un altro mondo gli pare ora impossibile; per quelli che sono andati via e che vorrebbero tornare; per gli ingegneri a mille euro e gli umanisti a rimborso spese; per quelli che nel migliore dei casi faranno il mestiere del padre (o il cui padre operaio il mestiere non ce l’ha più); per quelli che hanno sfilato coi libri perché tagliano su classi e biblioteche; per quelli che hanno protestato dalle gru e dai monumenti; per quelli che sono saliti sui tetti o che dai tetti sono caduti giù; per la vita diNormanZarcone e per le vite degli altri; per quelli che potrebbero trovarsi a piazza Tahir e per quelli che hanno gli occhi che piangono il Canale di Sicilia; per il ragazzo a cui a current under sea, picked his bones in whispers…
 (da  l'Unità di Giuseppe Provenzano)

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