A chi appartieni?
Data: Lunedì, 28 marzo 2011 ore 12:51:52 CEST
Argomento: Redazione


“A chi appartiene?”. Con questa domanda, nella mia città, ci si informa sull’identità di uno sconosciuto. E così in campo educativo, in famiglia e a scuola, si dovrebbe mirare a questo: a stimolare nei ragazzi la scoperta di appartenere, per prendere davvero coscienza di chi sono. I ragazzi sono disposti ad affrontare la realtà solo quando interiorizzano la loro unicità e io – insegnante ¬ esisto perché vedano, nel mio corpo, che la loro unicità è per me un dono e una responsabilità. Le loro vite mi sono affidate e donate. Solo così il bambino o l’adolescente assumono in sé la propria immagine come qualcuno che è voluto, che appartiene.

Ma come fa un genitore, come fa un insegnante a rendere tutto questo possibile, percepibile? Così racconta una delle più grandi pianiste russe del Novecento, nonché insegnante: «Nel mio gruppo c’era un “attaccabrighe”, un ragazzino di otto-nove anni praticamente senza famiglia, senza amare o essere amato. Si chiamava Akinfa; era indisponente, stuzzicava tutti, prendeva in giro i bambini ebrei, si azzuffava e così via. Noi tutti cercavamo di esortarlo con la parola e con l’esempio. Ma una volta Akinfa passò tutti i limiti: picchiò uno dei compagni, prese a male parole gli adulti, commise un furtarello. Fu “decretata” la sua espulsione, ma quando venne il momento di eseguire la “condanna” – il momento del distacco – io, non so come, scoppiai a piangere».

È a questo punto che avviene la “seconda nascita” di Akinfa: «Scoppiò a piangere anche lui; chiese perdono tutti, rese la refurtiva e da quel momento mi seguiva sempre ovunque, nel campo, come un fedele cagnolino; e spiegava a tutti che “in vita sua” (!) non aveva mai visto una maestra che piangesse per il suo alunno: che piangesse, per dirla con le sue parole, “sull’anima e sulla vita” di un monello. Proprio questo era il senso del suo stupore e del desiderio di rimettersi sulla buona strada».

Akinfa cambia vita, una seconda nascita, grazie alla pietas della sua insegnante e la pietas-pietà, da Omero a Dante, passando per Virgilio, è la manifestazione di questa appartenenza. La maestra piange per il suo ragazzo, che solo a quel punto percepisce come la sua vita sia amata, voluta, accolta. Da quel momento Akinfa sa di appartenere a lei, la segue ovunque, cambia perché è cambiato. Una maestra piange per il suo alunno e lo salva, più che col buon esempio e le parole. Manifesta che quel ragazzo è un dono, le appartiene, ne è responsabile.

Ma non a tutti sarà dato piangere per i propri alunni. Come può questo pianto manifestarsi senza lacrime e avere gli stessi effetti? Come può uno studente sentire la pietas, l’appartenenza e quindi mettere in gioco la sua vita come una vita bella, che merita di essere e amare, perché qualcuno l’ha amata prima? Il segreto è il tempo. Donare tempo. Lo vedo con i miei alunni. Una mail, una chiacchierata a tu per tu all’intervallo, un caffè al bar della scuola, un progetto condiviso, una mostra, un’uscita a teatro… Tutto il tempo che riesco a donare loro è quel pianto, è quella pietas di chi appartiene: tu mi appartieni, sei dono. Tutto il tempo che i miei genitori e maestri mi hanno regalato, ha reso bella la mia vita e fortissima la consapevolezza che valga la pena spenderla per amare.

Non sempre abbiamo il coraggio di ritagliare i nostri impegni di lavoro, la nostra auto-affermazione con i suoi ritmi asfissianti, i nostri spazi, per regalarli ai nostri studenti e ai nostri figli. Ma forse questa è l’unica cosa che possiamo veramente donare agli altri, perché prendere il proprio tempo e regalarlo è amare, educare, liberare. Me lo aveva già detto tempo fa qualcuno: “Noi amiamo, perché qualcuno ci ha amati per primo”. E continuo a dimenticarmelo. Se io non appartengo, non mi appartengo e nessuno mi appartiene. Alessandro D’Avenia

 







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