Perché le prove Invalsi non fanno bene alla scuola pubblica?
Data: Domenica, 27 marzo 2011 ore 10:00:00 CEST Argomento: Rassegna stampa
Queste sono le ragioni che ci spingono a chiedere che i Collegi Docenti
decidano, facendo appello all’autonomia, di non prestare collaborazione
alle prove Invalsi (sorveglianza, somministrazione, correzione) e di
non modificare la programmazione didattica. Chiediamo anche a tutti gli
altri organismi collettivi delle scuole di prendere posizione contro:
assemblee sindacali ed Rsu, consigli di istituto e di circolo,
collettivi e comitati studenteschi, comitati genitori.
Se però le condizioni di una determinata scuola non permettono prese di
posizione del Collegio Docenti, chiediamo allora agli insegnanti di
aiutare i propri studenti a superare le prove Invalsi: in questo modo
l’evento potrà rivelarsi un’esperienza utile e magari divertente per
gli studenti, invalidandone però nei fatti qualsiasi presunzione di
scientificità.
Rammentiamo inoltre che la sorveglianza durante le prove non è dovuta,
se va oltre le ore previste da contratto, che gli studenti possono
rifiutarsi di compilare i test senza alcuna conseguenza disciplinare, e
che i genitori possono decidere di tenere a casa i propri figli il
giorno dei test.
In poche parole al fine di boicottare le prove Invalsi vanno bene tutte
le iniziative, basta che siano gestite collettivamente dalle classi.
Non avrebbe senso ad esempio che ci fossero solo pochi genitori di una
classe a tenere a casa i figli o che in una scuola solo pochi
insegnanti si rifiutassero di somministrare i test, perché verrebbero
sostituiti da altri e ciò non invaliderebbe i test. Il fine è infatti
quello di rendere inservibili i risultati finali.
Abbiamo la possibilità come popolo della scuola di infliggere alla
Gelmini un’altra sconfitta come quella sulla premialità docente. Questa
campagna di boicottaggio è una maniera per gridare: si vuole davvero
che migliori la qualità della scuola pubblica? Allora: basta tagli!
Perché le prove INVALSI non
fanno bene alla Scuola Pubblica?
Se le prove Invalsi avessero il
solo fine di “testare” il funziona-
mento del sistema scolastico,
sarebbero state somministrate
“a campione” come oggi avviene
con i dati PISA (che confrontano
le performance dei sistemi scolastici di vari Paesi),
così avremmo un’idea “in generale” sulla qualità
dell’istruzione in periferia e in centro città, al Sud
o al Nord.
Al contrario il Ministero considera la somministra-
zione delle prove Invalsi come obbligatoria per
ogni scuola.
Testare il
sistema
o costruire
gerarchie?
Scuole di
serie B, per
sempre?
Anche in altri Paesi (ad esempio
Regno Unito e USA) si utilizzano
da tempo test nazionali sistema-
tici, finalizzati all’assegnazione
di un punteggio ad ogni scuola.
E ciò ha prodotto deformazioni di sistema perico-
losissime. I genitori sono portati ad iscrivere i figli
presso le scuole con più alto punteggio, che dun-
que hanno un numero di aspiranti iscritti sovrab-
bondante. Queste scuole possono così permettersi
di selezionare l’utenza in base ai precedenti risul-
tati scolastici degli aspiranti. Si crea così un circo-
lo vizioso in base al quale le scuole dichiarate di
serie A godono già in partenza di un vantaggio
che si replica ad ogni nuova tornata di test.
Per le scuole di serie B è difficile uscire dal proprio
stato perché sono “costrette” ad accogliere gli stu-
denti con più difficoltà “scartati” dalle scuole ad
alta valutazione. Una scuola pubblica non discri-
minante, invece, dovrebbe dare spazio ad una
utenza variegata, per non creare scuole ghetto.
È vero, in parte oggi questo già avviene, ma la
valutazione di scuola darà rigore pseudoscientifico
a questa dinamica che lo Stato, invece, dovrebbe
attivamente contrastare.
I “premi” solo Nei Paesi dove regna la dittatura
al 25% delle dei test, le scuole che conseguo-
no alti punteggi godono di “pre-
scuole
mi”, cioé risorse aggiuntive.
Che sia questo il fine della Gel-
mini è dimostrato dal “progetto sperimentale per la
valutazione delle scuole” varato dal Ministero nel
novembre scorso e che ha coinvolto, tra le prote-
ste dei genitori, alcune città. Il progetto prevedeva
che “alle scuole che si collocano nella fascia più
alta della graduatoria (massimo 25% del totale)
verrà assegnato un premio di importo significativo
(fino ad un massimo di 70.000 euro a scuola in
base al numero degli insegnanti) che avrà come
vincolo di destinazione la retribuzione del perso-
nale effettivamente operante nella scuola nel pe-
riodo di sperimentazione”.
I premi non
incentivano
nessun
miglioramento
Questi premi non servono ad in-
centivare alcun miglioramento,
dato che il fatto che una scuola
sia di “serie B” dipende dal tipo
di utenza che la frequenta più
che dalla qualità dell’insegna-
mento. È noto da tutte le ricerche sociologiche ef-
fettuate sull’argomento, che il successo scolastico
è direttamente legato alla classe sociale di origine,
al capitale culturale familiare, alla solidità del nu-
cleo familiare, al contesto ambientale. Detto in po-
che parole: una scuola di periferia non ha alcuna
possibilità di rivaleggiare, a parità di condizioni,
con una scuola del centro città. Una scuola pub-
blica che vuol garantire pari condizioni di ac-
cesso all’istruzione, deve dirigere gli investi-
menti e gli “aiuti” non alle scuole “di successo”,
perché non ne hanno bisogno ma, al contrario,
a quelle con maggiori problematicità.
Gli studenti in La crescente importanza data ai
difficoltà? un punteggi assegnati ad ogni
scuola farà sì che le scuole sco-
peso morto
raggeranno tutti gli studenti in
difficoltà a proseguire gli studi.
Più studenti in difficoltà frequenteranno una de-
terminata scuola, infatti, e più il punteggio com-
plessivo di quella scuola sarà penalizzato.
Si accentuerà così la tendenza a bocciare o in
qualche modo a scoraggiare la permanenza nella
scuola. Un sistema scolastico che vuol far cre-
scere l’insieme dei suoi giovani cittadini deve
invece incoraggiare le scuole a “tenere” i pro-
pri studenti, e a trovare le migliori strategie per
assicurare il loro successo scolastico.
Tra i compiti dell’Invalsi c’è an-
che quello di suggerire al Mini-
stero metodi per differenziare i
docenti in base al “merito”.
Uno dei modi più semplici, in
voga in altri Paesi, è proprio
quello di legarlo al successo del-
la propria scuola ed eventualmente della propria
classe. I dati infatti rimangono a disposizione delle
scuole discriminati classe per classe. Ciò indurrà i
docenti ad un atteggiamento ostile nei confronti di
tutti gli studenti in difficoltà e li renderà complici
della loro rapida esplulsione dalla scuola: la dimi-
nuzione del numero di studenti in difficoltà nella
propria classe o nella propria scuola, infatti, inci-
derà direttamente sul proprio livello stipendiale.
Nell’ospedale
che cura i
sani tutti i
dottori sono
bravissimi
La Repubblica
si impegna
a rimuovere
gli ostacoli
di ordine
economico e
sociale, che,
limitando
di fatto la
libertà e
l’eguaglianza
dei cittadini,
impediscono
il pieno
sviluppo
della persona
umana?
Nonostante l’Invalsi assicuri che
i dati verranno “depurati” da fat-
tori esterni, i meccanismi di que-
sta depurazione non sono affatto
noti. Le variabili che incidono
sui risultati scolastici, del resto,
sono assai numerose. E se fosse-
ro prese davvero sul serio ren-
derebbero inutili i test sistemati-
ci scuola per scuola. Infatti, dati
alcuni fattori “esterni” i risultati
scolastici sono prevedibili, a pa-
rità di risorse. Questo non signi-
fica che il successo scolastico di
un singolo individuo con un cer-
to background sociale sia ineso-
rabile.
Ma che da una “massa” di indi-
vidui accomunati da uno stesso
background sociale, sì, i risultati
sono prevedibili.
Già oggi accade così. È ovvio per qualsiasi inse-
gnante che c’è una differenza colossale tra inse-
gnare una stessa materia in un liceo del centro e
in un professionale di periferia.
Questi dati ci sono già: incrociando la provenienza
sociale degli studenti con i tassi di abbandono, i
voti di licenza media o di maturità e la residenza
geografica, ad esempio, avremmo un quadro chia-
ro delle scuole da sostenere.
Ma su questi dati nessuno vuol ragionare perché
in realtà i fattori sociali che li determinano non
li si vuol modificare: al contrario si lavora per
cristallizzarli.
Una didattica
piegata alla
soluzione dei
test
Esistono molti dubbi, inoltre,
sulla possiblità che hanno i test
di valutare gli apprendimenti.
E questo è particolarmente vero
per i bambini della primaria il
cui successo a scuola ha più a che fare con il supe-
ramento di ostacoli di natura educativa che stret-
tamente didattica. Il problema però non è tanto
nell’attendibilità dei test a valutare la qualità di
una scuola, quanto nell’importanza che i loro ri-
sultati finiscono per assumere. Se si trattasse di
un metro di valutazione tra i tanti, infatti, se ne
potrebbe discutere.
Nei Paesi dove se ne fa un uso massiccio, invece, la
didattica è stata “piegata” all’esigenza di superare
i test, proprio perché dai loro risultati dipendono
qualità dell’utenza, finanziamenti, livelli stipen-
diali. Sono i test che comandano sulla didattica,
dato che per ogni scuola diventa vitale che i
propri studenti possano superarli con succes-
so. Già oggi una parte del tempo in terza media è
dedicato all’”allenamento” per il superamento dei test Invalsi in
occasione dell’esame di stato di fine
ciclo, figuriamoci cosa accadrà quando da quei ri-
sultati dipenderanno finanziamenti e stipendi.
Esistono
competenze
e abilità che
i test non
possono
misurare
Per loro stessa natura i test ten-
dono a sopravvalutare la nozio-
ne più del ragionamento, il dato
più del processo. Esistono com-
petenze e abilità che i test non
possono misurare, proprio per la
loro natura rigida e standardiz-
zata. Non misurano la capacità
di riflessione critica, la capacità di esporre il pen-
siero, il livello di partenza e quello di arrivo, la
partecipazione. Misurando solo l’acquisizione di
una serie di informazioni settoriali, stimolano
una frammentazione della didattica, la sua ba-
nalizzazione. Esaltando la performance persona-
le mortifica gli sforzi per arrivare alla conoscenza
come conquista di gruppo, nata dalla cooperazio-
ne più che dalla competizione.
Queste prove sono uguali per
tutti e tutte, ma nella pratica
quotidiana dell’insegnamen-
to invece si è a contatto con i
bambini e bambine reali e
con le loro profonde diversità
di ritmo e modo di apprendi-
mento. Il linguaggio delle prove richiede una ca-
pacità di concentrazione e comprensione che su-
pera quella che riconosciamo nei nostri alunni e
Le prove
Invalsi sono
particolarmente
negative nella
scuola primaria
alunne. Le insegnanti non hanno mai pensato di
organizzare e mettere in pratica verifiche di que-
sto tipo durante l’ anno scolastico.
I “concetti” messi in campo e “valutati” provengo-
no da tutti gli indirizzi cognitivi collegati alla disci-
plina e fanno riferimento a tutto il lavoro svolto ad
iniziare dall’anno scolastico precedente e, magari,
non ancora affrontato nell’anno scolastico in cor-
so. Il tempo di somministrazione è troppo limitato
rispetto alle richieste di applicazione fatte ai bam-
bini e bambine.
Lo sforzo mentale che si richiede per passare da
un campo cognitivo all’altro, da un concetto ad un
altro, esige che una rete connettiva forte e mo-
tivante lo contenga e lo sostenga, rendendolo
possibile. Il contesto di somministrazione, senza
la presenza delle insegnanti di riferimento, com-
porta una evidente interruzione dell’esperienza
scolastica conosciuta, creando in alcuni casi stati
di ansia negli alunni e alunne più sensibili.
Non potendo o volendo partire dalla conoscenza
degli indirizzi didattici specifici seguiti da ogni
scuola nella sua originalità, le prove Invalsi si ri-
chiamano ad una superiore dimensione tecnica
definita dal legislatore.
Per l’Invalsi i bambini e le bambine con disa-
bilità, i bambini e le bambine di altra cultura,
sono invisibili. Per le insegnanti invece essi
sono persone a cui si dedica giorno dopo gior-
no attenzione perché possano avere le stesse
opportunità di tutti e tutte.
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