Quando la scuola non aiuta a vincere
Data: Mercoledì, 23 marzo 2011 ore 17:00:00 CET Argomento: Rassegna stampa
La laurea in
lettere conquistata a Palermo dalla dottoressa Giusi Spagnolo, affetta
da sindrome di Down, raccontata ieri da Laura Anello sulla Stampa, è
una sconfitta per tutta la scuola italiana. La straordinaria
vittoria di questa ragazza di 26 anni, piccolina e sorridente, che ha
discusso la tesi in Beni demoetnoantropologici, non è dovuta infatti a
uno sforzo della pubblica istruzione, che pure spende una enormità
(spesso in modo discutibile) per gli insegnanti di sostegno. È dovuta a
una certa disponibilità economica, indispensabile, della
famiglia.
All’amore e alla preziosa cocciutaggine di un padre docente di fisica
già presidente dell’associazione famiglie persone Down e di una madre
assistente sociale alle prese quotidianamente con le adolescenze
difficili nel carcere minorile. All’appoggio quotidiano di una
insegnante privata, Maria Pia Caputo, che ha accompagnato Giusi dalle
materne fino all’università. Per dirla chiaramente: se avesse potuto
contare soltanto sull’assistenza pubblica, che in linea con la carta
costituzionale dovrebbe garantire a tutti (tutti!) le pari opportunità,
la nostra dottoressa Spagnolo sarebbe stata condannata a restare una
disabile semianalfabeta emarginata. O peggio, visto il disprezzo
razzista dilagante online, una «mongoloide» . Nella scia di secoli di
discriminazione cristallizzati dalla prima definizione che lo
scienziato Langdon Down diede nel 1866 dei bimbi affetti dalla sindrome
che avrebbe poi preso il suo nome: «rappresentanti immaturi della
grande razza mongola» appartenenti ad una «regressione verso una
tipologia orientale primitiva» . Una definizione che riassume il
rifiuto: no, questi non sono figli nostri, appartengono per uno scherzo
della natura a una razza lontanissima da noi. Non bastasse, sempre
ieri, la lettera di una madre al Fatto quotidiano gettava un’altra
palata di fango sulla nostra scuola. Valentina Rinaldi raccontava
dell’emozione provata domenica quando suo figlio, che ha 10 anni, le
aveva chiesto di essere lasciato al portone per salire da solo a casa
della nonna al secondo piano: «Cosa c’è di strano in questo? Nulla, ma
di particolare c’è che mio figlio è cieco dalla nascita» . Per lui,
quel gesto per noi così piccolo, era una grande impresa. Impresa
fallita, al contrario, dalla scuola frequentata dal ragazzino. «Oggi
scopro che gli studenti diversamente abili non possono correre, giocare
e divertirsi ai Giochi della gioventù, come tutti gli altri, ma devono
restare a guardare, fare da spettatori di una vita normale che è degli
altri e non la loro» , scrive quella madre: «Non ci sono i fondi
necessari a garantire la loro assistenza» . Il ministro Mariastella
Gelmini, davanti alla contestazione di questa mostruosità, ha detto: io
non c’entro, è tutto affidato al Coni. Ma chi glielo spiega, al figlio
di Valentina, che nelle scuole della ricca Vicenza mancano perfino i
moduli per iscrivere gli alunni disabili ai Giochi? (da Corriere
della sera di Gianantonio Stella)
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