Il vicepresidente di Bankitalia: «Istruzione: sì, ma incentivata»
Data: Mercoledì, 23 marzo 2011 ore 14:52:31 CET
Argomento: Rassegna stampa


Come cambierà la domanda di lavoro nel mondo dove hanno fatto irruzione la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica? Come può e saprà rispondere un'Italia che pare sia stata colta impreparata? Il tema è stato al centro di una delle «Lezioni per l'università e la città» organizzate dal «Centro studi economia monetaria e bancaria» dell'università statale diretto da Franco Spinelli, protagonista Ignazio Visco, vice direttore generale della Banca d'Italia.
IL RELATORE ha affrontato il discorso partendo dal suggerimento finale: è soprattutto investendo nel capitale umano, nella scuola, che l'Italia potrà uscire da anni di crescita bloccata. I nodi del sistema economico del Paese non sono solamente quelli storici, in particolare il modesto peso dei servizi e le ridotte dimensioni delle imprese, l'arretratezza di burocrazia e infrastrutture, ma anche i riluttanti investimenti per le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, Tic, (le imprese investono in tecnologie l'11%, in Francia e Germania il 16%, nell'Europa del Nord il 20%) e l'inadeguatezza del capitale umano.     
Visco ha citato studi internazionali che danno un quadro sconsolante. Nel 2003 già si parlava di scarsa competenza alfabetica funzionale degli italiani che, in parole povere, significa capacità di comprendere un testo e utilizzarlo. Il dato attribuiva all'80% delle persone fra i 16 e i 54 anni una padronanza insufficiente della lingua italiana. Altri studi indicano carenze nei quindicenni in tutte le discipline, particolarmente nelle scientifiche e un peggioramento con l'avanzata degli studi, vanno bene unicamente le elementari.
Il sistema scolastico mostra molte pecche secondo l'economista. L'età media è elevata, il turn over eccessivo, uno su quattro cambia scuola ogni anno, i docenti sono troppi, 800mila, e troppi a tempo determinato; mancano incentivi all'aggiornamento e criteri di selezione e di carriera che riconoscano il merito. «La scuola non è universo a parte, dovrebbe essere al centro della politica economica» è la valutazione. Oltretutto servirebbe una preparazione più adeguata pure in campo finanziario, dopo lo spostamento dei rischi alle famiglie che devono prendere decisioni finanziarie, quando un terzo degli italiani non è in grado di capire un estratto conto. Non c'è stimolo a inseguire i pezzi di carta. Da noi un diplomato guadagna il 10% più di un non diplomato: in altre nazioni occidentali si va dal 20 al 45% in più. Un laureato guadagna il 24% più di un diplomato, altrove dal 30 al 50% in più. E non hanno prospettive di stabilità lavorativa, perché, sostiene lo studioso, la flessibilità è stata usata solamente per diminuire i costi. Così anche l'apprendistato, occasione persa finalizzata a spendere meno e a rendere temporaneo il rapporto. «Tutto questo è stato negativo per l'economia. I contratti a termine con l'abbassamento dei salari hanno consentito di rallentare la reazione alle sfide del XXI secolo, hanno allungato la malattia di aziende che dovevano chiudere o trasformarsi». Cosa fare? Più scolarizzazione, più occupazione per giovani e donne, nuove professionalità e aggiornamenti rapidi di chi lavora. «I nuovi lavori richiederanno di andare al di là delle conoscenze standardizzate e acquisite una volta per tutte, sarà importante oltre alla conoscenza la competenza, intesa come abilità di affrontare situazioni inedite. L'attitudine al problem solving in primis, quindi pensiero critico, creatività, disponibilità all'innovazione, alla comunicazione, alla collaborazione».
Magda Biglia

(da http://www.bresciaoggi.it/ )

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