La patria di confine di Cesare Battisti
Data: Mercoledì, 23 marzo 2011 ore 11:55:00 CET Argomento: Rassegna stampa
Era l'alba del 10
luglio 1916 quando Cesare Battisti, geografo e giornalista trentino,
deputato socialista a Vienna, esponente di punta dell'irredentismo e
volontario nell'esercito italiano, fu catturato dagli austriaci. Gli
avvenimenti seguenti, sotto la regia asburgica, configurarono una
specie di via crucis e di rito sacrificale che in tre giorni sfociò
nell'esecuzione del condannato nel Castello del Buonconsiglio di Trento.
Messo in catene, fu condotto fra ali di folla, con soste cadenzate per
permettere alla gente di guardarlo da vicino e insultarlo. Nelle
manifestazioni di ostilità, spontanee e, in parte, alimentate, affiorò
l'identificazione degli irredentisti come capro espiatorio per le
violenze inferte alla terra e alla popolazione trentina per aver voluto
la guerra («Porchi taliani», «Vi daremo noi le prediche e le conferenze
per la guerra»). In effetti, il Trentino era diventato zona di
operazioni - con le conseguenze del caso: distruzioni, sfollamenti,
deportazioni - dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria
nel 1915, anche se dall'anno precedente gli abitanti erano stati
mobilitati in quanto sudditi dell'impero nello scontro esploso in
Europa.
Nel castello del Buonconsiglio Battisti, con l'istriano Fabio Filzi,
subì un processo sommario concluso con la condanna a morte. La sentenza
fu eseguita il 12 luglio, dopo che agli imputati fu fatto indossare, al
posto della divisa militare, un vestito di stoffa ruvida. Battisti
affrontò la prova con dignità e fermezza. Nel cortile del castello
erano stati fatti affluire militari per assistere al supplizio; molti
curiosi si erano assiepati nelle vicinanze senza riuscire ad
affacciarsi. Un insistito lampeggiare di scatti fotografici accompagnò
il trasferimento e l'esecuzione: pare che il divieto di fare fotografie
legato allo stato di guerra fosse stato sospeso per l'occasione. E così
oggi una sequenza di foto è conservata nei musei trentini e documenta
l'evento con dettagli.
A eseguire la sentenza con una sorta di garrota fu il boia Josef Lang.
Il gruppo è rimasto rappresentato in posa attorno al corpo esanime di
Battisti, in attitudine compiaciuta per il lavoro eseguito, in varie
inquadrature fotografiche circolate prima clandestine, poi oggetto di
una divulgazione a scopo propagandistico. Qualche anno dopo il
commediografo austriaco Karl Kraus, nell'opera Gli ultimi giorni
dell'umanità, scrisse pagine brucianti contro l'autorappresentazione di
ferocia che aveva marchiato l'Austria in quell'occasione, per il
rituale della messa a morte e per la sua oscena moltiplicazione in
evento mediatico, che ne aveva sanzionato davanti al mondo la
decrepitezza.
L'impero aveva offerto all'Italia la migliore arma propagandistica già
confezionata. «Perché non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo anche
messi in posa, e abbiamo fotografato non solo le esecuzioni, bensì
anche gli spettatori, e addirittura i fotografi». L'impiccagione di
Battisti fu un tramite tra ancien régime e modernità: del primo aveva
il carattere di spettacolarità del supplizio con il concorso di popolo,
della seconda l'uso dei mezzi di riproduzione meccanica e di
circolazione di massa delle immagini.
Pensata come un monito per coloro che volevano ribellarsi al dominio
asburgico, la sceneggiata si ritorse contro gli autori. Battisti
divenne l'icona del patriottismo italiano, entrò nel martirologio
nazionale, fu eretto, non senza forzature, a simbolo del nazionalismo
(mentre la sua visione era ispirata a una più ampia idea di riscatto
dei popoli, secondo i moduli dell'interventismo democratico), fu usato
da Mussolini per promuovere politiche di italianizzazione contro la
popolazione tirolese di lingua tedesca. Negli anni 20 e 30 ritratti
fotografici dell'evento erano disposti, per impulso di maestri zelanti,
alla sommità di piccoli altari di scuola o di classe custoditi da
scolari che erano invitati a scrivere lettere di deferenza alla vedova
Ernesta Bittanti così come alla madre di Fabio e degli altri fratelli
Filzi: lettere piene di odio contro i carnefici e di espressioni
affettuose per gli eroi.
Se Battisti non fosse stato che l'esponente di punta di un popolo
insofferente del dominio imperiale, il discorso sull'italianità del
Trentino potrebbe finire qui. Al di là della pattuglia irredentista,
gran parte della popolazione non aveva motivo per mettere in
discussione la lealtà al vecchio imperatore, al centro di un ordine
multinazionale che appariva immutabile, anche se non si sentiva
austriaca ma trentina. In questo senso la figura del martire non solo
non esaurisce, ma per certi aspetti ha finito per nascondere la storia
del Trentino in guerra e della lacerante gestazione della sua
italianità. Oltre la figura dell'eroe, c'è un popolo attraversato da
sofferenze, travolto da una diaspora senza precedenti a causa del
conflitto: un popolo scomparso, a lungo dimenticato dalla memoria e
dalla storia. Se la Grande Guerra, con la sua tragica mescolanza di
linguaggi e di destini nelle trincee, ha avuto un ruolo fondamentale
nel fare gli italiani, in Trentino ciò è avvenuto attraverso un cammino
doppiamente lacerante che ha richiesto decenni per essere rielaborato.
Il clima nazionalistico del dopoguerra esaltò la scelta ideale di
quanti avevano condiviso l'ispirazione irredentista, che furono circa
700, molti dei quali pagarono con la vita la propria opzione ideale, e
cancellò gli altri, quasi tutti contadini e montanari, che avevano
servito sotto le insegne asburgiche: su una popolazione di 390mila
abitanti (il 94% italofono e in piccolissima parte ladini), circa
55mila furono quelli che risposero alla mobilitazione e combatterono
sul fronte orientale, in Galizia, Bucovina, Volinia, migliaia di
chilometri lontani dalla loro terra. Oltre 10mila di essi, secondo
conteggi ancora difficili, morirono in scontri immani. Molti altri
(circa 12.500) furono catturati e affrontarono durissime prigionie in
Siberia, finendo - dopo la vittoria della rivoluzione bolscevica - in
Estremo Oriente e dovendo fare il giro del mondo prima di tornare a
casa. E qui, dopo queste peripezie, partiti sudditi di Francesco
Giuseppe scoprirono di essere diventati, a loro insaputa e senza essere
interpellati, sudditi di Vittorio Emanuele III. Non fu solo questa la
tragedia del popolo trentino. Se l'Italia conobbe il fenomeno del
profugato e lo esaltò come problema nazionale solo dopo Caporetto, il
Trentino fu investito da un massiccio esodo, in parte verso l'Austria
(secondo calcoli attendibili, circa 75mila, distribuiti tra Boemia e
Moravia in un territorio venti volte più grande della regione di
origine), in parte minore verso l'Italia. Una vicenda che non aveva
alcuna particolare valenza nelle retoriche nazionali e che non trovò
spazio nel racconto patriottico.
(di Antonio Gibelli da IlSole24Ore)
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