I test Invalsi usati per punire?
Data: Lunedì, 21 marzo 2011 ore 11:20:14 CET Argomento: Rassegna stampa
A fine anno una nota
del Miur ha informato che anche alle superiori saranno somministrati i
test Invalsi (Istituto di Valutazione del Sistema Educativo di
Istruzione e Formazione) in Italiano e Matematica. La discussione
sull’obbligatorietà del provvedimento coinvolge molte scuole, anche se
dirigenti zelanti negano la discussione ai collegi, titolari delle
delibere sull’azione didattica ed educativa e su criteri e attività di
valutazione. La Rete pullula di mozioni senza se e senza ma contro
l’imposizione del test. È in ballo innanzitutto l’ambiguità del
provvedimento, ulteriore esempio della tendenza del governo a
legiferare in modo improprio. Le scuole sarebbero obbligate a
somministrare i test, ma manca il finanziamento per l’operazione e in
più la loro erogazione non è prevista dal contratto di lavoro dei
docenti. Molti anche i dubbi nel merito: prove standardizzate – per lo
più quesiti a risposta multipla – estranee alle nostre modalità
didattiche, volte alle conoscenze più che alle competenze che i test
misurano.
Non valorizzano il pluralismo delle esperienze, diversificazione delle
intelligenze, valore dei saperi critico-analitici: elementi su cui è
prevalentemente impostata l’azione didattico-pedagogica.
La scuola democratica non è ostile alla valutazione in sé; è ostile a
questa valutazione, ai termini pedestri e punitivi che la convogliano.
Il fatto che l’Europa si serva di strumenti simili – ma in altri Paesi
vi è una cultura della valutazione ben più sviluppata e scientifica,
con finanziamenti, formazione degli insegnanti, riconoscimento dei
carichi di lavoro – non è motivo sufficiente per imporre alla nostra
scuola (ferita nel suo mandato, vilipesa nelle professionalità,
affossata da politiche di tagli scellerati, eufemisticamente definite
“riordino e semplificazione”) nuove sferzate provocatorie. Nei Paesi Ue
le prove standardizzate nazionali vogliono monitorare e valutare le
scuole e/o il sistema educativo nel suo insieme. Oltre la metà dei
Paesi ne fa uso. I risultati, insieme ad altri parametri, sono
indicatori della qualità dell’insegnamento e dell’efficacia generale di
politiche e pratiche didattiche. Lettonia, Ungheria, Austria e
Inghilterra si concentrano su performance delle singole scuole e
valutazione della loro efficacia educativa. Irlanda, Spagna, Francia,
Finlandia e Scozia, invece, sul sistema. Quasi mai a essere valutate
sono le prestazioni degli insegnanti, attraverso quelle dei propri
studenti.
Qui, invece, la neonata guerra santa della valutazione è
indissolubilmente legata a “merito”, premialità, diversificazione di
carriera: randello da agitare contro il fannullone che Brunetta e
Gelmini vedono in ciascuno di noi. La politica contro la libertà
d’insegnamento e per l’omologazione al Pensiero Unico, di cui trasudano
i provvedimenti gelminbrunettiani; l’assenza di investimenti
significativi dal punto di vista culturale prima che economico sulla
valutazione; il dileggio riversato sulla scuola pubblica, giudicata dal
premier “gigantesco ammortizzatore sociale e strumento di creazione del
consenso”; questi ed altri elementi ci inducono a collegare la nuova
tornata di prove Invalsi e la loro surrettizia obbligatorietà con l’uso
punitivo e becero che stanno facendo della valutazione. Strumento che
sarebbe invece fondamentale in una logica di analisi e comprensione, ad
esempio, dei motivi delle “marce diverse” del nostro sistema
scolastico; dei differenti bisogni; delle direzioni verso le quali
indirizzare una vera riforma della scuola, che transiti attraverso il
rispetto del mandato costituzionale e del diritto all’apprendimento e
alla cittadinanza consapevole dei ragazzi.(di Marina Boscaino da Il
Fatto)
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