La scuola della precarietà
Data: Lunedì, 21 marzo 2011 ore 10:30:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


L'introduzione del cosiddetto "precariato" tra gli insegnanti del nostro paese ha costituito storicamente la prima breccia nel sistema di garanzie che regolava l'impiego pubblico. Se si guarda bene, scuola di qualità non fa rima con precarietà
E' quasi un rituale dell'informazione italiana: numerosi scritti e articoli, con l'andamento di un fiume carsico, inondano quotidiani e riviste nei momenti più "caldi" dell'anno scolastico (apertura e chiusura) per poi inabissare nel silenzio il problema della degradazione delle condizioni di lavoro dentro un'istituzione dall'importanza strategica essenziale come quella della scuola.                
Raramente però in essi viene sottolineato come l'introduzione del cosiddetto "precariato" tra gli insegnanti del nostro paese abbia costituito storicamente la prima possente breccia nel sistema di garanzie che regolava l'impiego pubblico. Come una sorta di cavallo di Troia, tale fenomeno ha preannunciato la penetrazione e l'estensione dell'assedio della ristrutturazione contrattuale nel fortilizio del tanto deprecato (da chi può farne a meno) "posto fisso".

Analizzare dunque più da vicino questo processo consente una valutazione su un lungo periodo degli esiti della "flessibilità" in un ambito lavorativo statale e un giudizio sulle motivazioni e meccanismi che ne hanno determinato la generalizzazione. In entrambi i casi tale verifica porta ben lontano dal riscontrare quegli effetti virtuosi e quei presunti benefici in termini di efficacia lavorativa e di ricaduta occupazionale che ispirano e riempiono di entusiasmo i cantori delle "magnifiche sorti e progressive" del neoliberismo.

Forme di contratto "atipico" hanno in realtà da sempre afflitto una parte della forza-lavoro docente, almeno fin dai tempi della "Legge Casati". Tale condizione tuttavia, all'inizio, era determinata dalla difficoltà del neonato stato italiano a reperire insegnanti con una qualifica sufficiente a divenire "titolari di cattedra". Le cose però cambiano rapidamente. Già nel 1953 Salvemini denunciava la creazione artificiale di una notevole quantità di supplentato a fini clientelari tramite l'aggiramento di una normativa del 1906 che fissava nel concorso l'unica modalità di assunzione: "Bandirono i concorsi per un numero inferiore ai posti che sarebbero stati presumibilmente disponibili e, quando non c'erano più vincitori di concorsi da mettere a posto, nominavano in via di urgenza senza concorso dei supplenti, e questi rimanevano tali per anni ed anni, finché non venissero 'immessi nei ruoli' con qualche infornata-amstia [...]".

Il giochetto rivelato da Salvemini non rievoca un arcaico stratagemma da "padroni del vapore" d'antan ma inaugura una pratica di sfruttamento che, complicata da raffinate alchimie procedurali e amministrative, vale ancor adesso, incredibilmente tollerata, senza quasi alcun sussurro, dalla maggior parte dei sindacati. Già oggi, anche dopo le ben note spietate mutilazioni di organico da parte del ministro Gelmini, ci sarebbero ancora almeno 30.000 cattedre immediatamente disponibili per assunzioni a tempo indeterminato. Ma il ministero, invece di servirsene per una stabilizzazione almeno parziale degli aspiranti al ruolo, le assegna tramite mortificanti e sovraffollate "convocazioni" di docenti precari all'inizio di ogni anno scolastico. Tali incarichi sono concessi mediante contratti che terminano il 31 agosto, e sono messi nuovamente in palio magari pochissimi giorni più tardi per l'annualità successiva.

 
Esistono poi decine di migliaia di cattedre dette "di fatto" che non sono disponibili per assunzioni "in ruolo" e che costituiscono l'enorme maggioranza dei posti ricoperti (quando va loro bene) dai "paria" dell'insegnamento precario. Questi contratti, invece di scadere il 31 agosto, come gli altri, pur essendo ad essi assolutamente equivalenti per qualità e quantità della prestazione lavorativa richiesta, terminano il 30 giugno. Ciò significa un vero e proprio esproprio di stato a danni di lavoratori già penalizzati sotto mille altri aspetti, dal profilo stipendiale, notevolmente al di sotto della media europea, fino ai continui ed estenuanti cambi di sede.

Tali contingenti sono stabiliti sulla base delle sopravvenienti esigenze delle singole scuole che eccedono le risorse di organico in ruolo (ad esempio: un certo numero di bocciati, o un'imprevista quantità di iscritti concorrono alla formazione di nuovi classi). L'uso disinvolto dei criteri atti alla loro costituzione ha però determinato un'espansione assolutamente sproporzionata di questa tipologia contrattuale rispetto a quella delle cattedre "di diritto" (quelle cioè "a tempo indeterminato"), a cui una certa parte della prima potrebbe essere ridotta tramite appositi accorgimenti amministrativi.

Ma non è finita. Nel pozzo senza fondo della stratificazione contrattuale della classe docente scolastica c'è un livello ancora più infimo. Si tratta di veri e propri lumpenproletarier dell'insegnamento che vivono nell'attesa di una convocazione telefonica da parte dei dirigenti scolastici per supplenze di pochi giorni o di poche settimane. Questi insegnanti subiscono infatti, al massimo grado, l'alienazione conseguente ad un impegno lavorativo privato di qualsiasi valore a causa di una discontinuità che lo rende effimero e avvilente, sia agli occhi di chi lo pratica, sia a quelli di chi ne dovrebbe essere il beneficiario, gli studenti. Anche in questo caso, sarebbe possibile trovare soluzioni compatibili con un impiego stabile degli insegnanti, ad esempio assumendo uno o più insegnanti che, in singoli istituti o in reti di scuole, abbiano il compito di sostituire per brevi e brevissimi periodi i colleghi assenti.

L'irrazionalità della scelta politico-sociale di costringere alla "flessibilità" i lavoratori della scuola pubblica è quindi evidente: i frequentissimi cambi di datore di lavoro (le scuole), la discontinuità salariale forzosa, la disperante incertezza sul proprio futuro, un'"autonomia" incapace di liberare energie e creatività didattiche ma massimamente inventiva nell'escogitare complicanze burocratiche, procedurali, valutative diverse quasi per ogni scuola, sono un assoluto non-senso in un comparto in cui elemento decisivo per l'efficacia dell'insegnamento è la continuità lavorativa. Nessuna modulazione didattica territoriale né sinergie progettuali, né investimento, né possibilità di auto-miglioramento personale da parte del singolo docente sono possibili senza di essa. Se si guarda bene, scuola di qualità non fa rima con precarietà.
     (di Dario Portale da rebusmagazine.org e in http://www.rassegna.it/)

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