Obbligo o diritto/dovere?
Data: Domenica, 27 marzo 2005 ore 23:31:47 CEST
Argomento: Opinioni


Provate a sostituire la parola “obbligo” con “diritto-dovere”. Non sono interscambiabili; definiscono due significati diversi, due concetti differenti. Obbligo o diritto-dovere di votare, di pagare le tasse, di allacciare le cinture di sicurezza. Non è solo una semplice questione di parole; è l'individuazione di visioni del mondo alternative. Talvolta la coercizione coincide con la soppressione della libertà individuale (l'obbligo al voto è tipico dei regimi dittatoriali); altre volte è il sintomo della garanzia da parte dello Stato di un diritto individuale o collettivo (l'obbligo di pagare le tasse garantisce l'esigibilità di alcuni diritti per me e per tutti cittadini). L'esempio capita a fagiolo: tutti i provvedimenti di sanatoria e condono fiscale promossi dal Governo Berlusconi suggeriscono una implicita non obbligatorietà di assolvere agli oneri tributari. E perciò configurano una visione del mondo in cui quel tipo di coercizione - e, di conseguenza, l'esigibilità dei diritti - sono valori di seconda mano, quando non obsoleti; quello che importa è promuovere la scorciatoia, la furberia, il vantaggio garantito per chi di vantaggi già ne ha. Una visione del mondo condivisa in primo luogo dal Presidente del Consiglio, principale beneficiario di molti provvedimenti del Governo improntati a questa logica.
Insomma, obbligo e diritto-dovere non sono la stessa cosa. Ma allora perché il Ministro Moratti si ostina a sostenere che il decreto approvato pochi giorni fa dal Consiglio dei Ministri “eleva l'obbligo all'istruzione e alla formazione per tutti dai 9 anni precedenti ai 12”?. E perché, soprattutto, radio, TV e giornali in larga parte le fanno eco, in un'amnesia collettiva del principio fondamentale su cui si basa il rapporto tra parola e suo significato? L'illusionismo casereccio cui la Moratti ispira le parole che sceglie di dire è paragonabile solo all'illusorietà delle sue affermazioni. Solo che un Ministro non è un prestigiatore, per quanto goffo; e non è un poeta, per quanto modesto; non può avere come obiettivo la selezione di tecniche di comunicazione soggettive, allusive, criptiche. Né agire mescolando le carte in tavola, approntando soluzioni che eludano il principio costituzionale che lo stato abbia l'obbligo di istituire scuole pubbliche in tutto il Paese. Un Ministro ha il dovere di dire la verità. Il termine “obbligo scolastico”, previsto dalla Costituzione, sparisce dal decreto approvato, dal Consiglio dei Ministri, insieme a quello sull'alternanza scuola-lavoro. Approvati, entrambi, nonostante il parere della Conferenza Unificata Stato-Regioni, singolarmente dell'ANCI e dell'UPI, e le numerose valutazioni critiche espresse dal Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione: pareri obbligatori, nell'iter dell'approvazione del decreto, ma non vincolanti. Talmente non vincolanti che sono rimasti inascoltati: un'ennesima prova del famigerato metodo democratico cui la Moratti si è ispirata. Anche in quel caso Moratti dice “apertura”, “confronto”, “ascolto” delle opinioni diverse dalla propria e intende chiusura, indifferenza, impermeabilità alle critiche, ai suggerimenti, alle obiezioni. E dire che ce ne vuole ad ignorare le voci contrarie alla riforma.
Il principio del diritto-dovere all'istruzione verrà esercitato, nell'ambigua scuola-Moratti, attraverso l'alternanza scuola-lavoro, oggetto del secondo decreto approvato. Individuata come una “modalità di realizzazione della formazione del secondo ciclo”, l'alternanza scuola-lavoro appare più difficile da giudicare, in mancanza del decreto sulle scuole superiori. Colpiscono tuttavia due punti: il fatto che sia rivolta ad una parte degli studenti, ragionevolmente i più deboli e i meno propensi ad un'applicazione teorica, ma non solo; anche i meno corredati di una tradizione familiare che li indirizzi verso studi più completi. Ed il fatto che manchi completamente l'analisi dei requisiti che le imprese che accoglierebbero i ragazzi devono avere, oltre a qualunque definizione del rapporto tra il tempo da trascorrere in aula e fuori, l'assenza di qualunque indicazione oraria. Su entrambi i decreti incombe la mancanza di individuazione delle risorse umane e finanziarie destinate alla realizzazione di ciò che viene previsto. Il Governo ha considerato la mancata presentazione del Piano Finanziario, previsto nell'art. 1 della legge delega 53 (la legge di riforma Moratti) “non condizionante” rispetto all'emanazione dei decreti legislativi. Fanno tutto loro; o meglio, fanno e disfano. Prima prevedono, come da norma, la copertura economica dei provvedimenti individuati dai singoli decreti attuativi della delega; poi ci dicono non fa niente, è solo un dettaglio, i soliti pignoli, sappiamo noi come fare. Questa tendenza ad essere sommari, frettolosi e approssimativi ha fatto sì che nella scuola elementare la riforma approvata è, per il momento, assai poco applicata: i laboratori non funzionano, informatica e inglese si fanno né più né meno di prima. E questo un po' per la resistenza dei singoli collegi docente e un po' per la mancanza di finanziamenti. Ma intanto implacabilmente, pezzo dopo pezzo, va avanti - almeno sulla carta, ma anche per le conseguenze negative che il programmatico risparmio sull'istruzione operato dal Governo sta producendo - lo smantellamento della scuola pubblica italiana; che chissà ancora quanto riuscirà a sopravvivere all'ipocrita restyling manageriale che la Moratti le sta infliggendo. Grave, gravissimo soprattutto perché mina alla base l'unitarietà del sistema scolastico sin dalla scuola materna; abbassa di fatto l'obbligo scolastico, imponendo ai ragazzi di seconda media una scelta precoce tra istruzione e un ibrido che, in una pericolosa mancanza di normativa, equipara il tirocinio, l'apprendistato al lavoro alla condivisione sui banchi di scuola dell'apprendimento, allo sviluppo di conoscenze, competenze e abilità ma soprattutto di senso critico e coscienza civile che solo la scuola può garantire. L'apprendistato, che farà naturalmente abbassare i numeri della dispersione scolastica, rappresenterà per i ragazzi che provengono da famiglie disagiate o prive di back ground culturale, un incentivo ad allontanarsi dai banchi di scuola. Si potrà obiettare che meglio lavoro che nulla. Ma questa operazione di chirurgia estetica sulla dispersione non risolve affatto il problema e allontana anni luce l'obiettivo di civiltà della scuola per tutti fino a 18 anni. E, per favore, non chiamatelo innalzamento dell'obbligo scolastico.
da "L'Unità"






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