Viva l'Italia unita! Intervento del Presidente Napolitano al Parlamento per le celebrazioni del 150° dell'Unità.
Data: Venerdì, 18 marzo 2011 ore 11:45:02 CET Argomento: Eventi
Sento di
dover rivolgere un riconoscente saluto ai tanti che hanno raccolto
l'appello a festeggiare e a celebrare i 150 anni dell'Italia unita : ai
tanti cittadini che ho incontrato o che mi hanno indirizzato messaggi,
esprimendo sentimenti e pensieri sinceri, e a tutti i soggetti pubblici
e privati che hanno promosso iniziative sempre più numerose in tutto il
Paese. Istituzioni rappresentative e Amministrazioni pubbliche :
Regioni e Provincie, e innanzitutto municipalità, Sindaci anche e in
particolare di piccoli Comuni, a conferma che quella è la nostra
istituzione di più antica e radicata tradizione storica, il fulcro
dell'autogoverno democratico e di ogni assetto autonomistico. Scuole, i
cui insegnanti e dirigenti hanno espresso la loro sensibilità per i
valori dell'unità nazionale, stimolando e raccogliendo un'attenzione e
disponibilità diffusa tra gli studenti. Istituzioni culturali di alto
prestigio nazionale, Università, Associazioni locali legate alla
memoria della nostra storia nei mille luoghi in cui essa si è svolta.
E ancora, case editrici, giornali, radiotelevisioni, in primo
luogo quella pubblica. Grazie a tutti. Grazie a quanti hanno dato il
loro apporto nel Comitato interministeriale e nel Comitato dei garanti,
a cominciare dal suo Presidente. Comune può essere la soddisfazione per
questo dispiegamento di iniziative e contributi, che continuerà ben
oltre la ricorrenza di oggi. E anche, aggiungo, per un rilancio, mai
così vasto e diffuso, dei nostri simboli, della bandiera tricolore,
dell'Inno di Mameli, delle melodie risorgimentali. Si è dunque
largamente compresa e condivisa la convinzione che ci muoveva e che
così formulerò : la memoria degli eventi che condussero alla nascita
dello Stato nazionale unitario e la riflessione sul lungo percorso
successivamente compiuto, possono risultare preziose nella difficile
fase che l'Italia sta attraversando, in un'epoca di profondo e
incessante cambiamento della realtà mondiale. Possono risultare
preziose per suscitare le risposte collettive di cui c'è più bisogno :
orgoglio e fiducia ; coscienza critica dei problemi rimasti irrisolti e
delle nuove sfide da affrontare ; senso della missione e dell'unità
nazionale. E' in questo spirito che abbiamo concepito le celebrazioni
del Centocinquantenario.
Orgoglio e fiducia, innanzitutto. Non temiamo di trarre questa lezione
dalle vicende risorgimentali! Non lasciamoci paralizzare dall'orrore
della retorica : per evitarla è sufficiente affidarsi alla luminosa
evidenza dei fatti. L'unificazione italiana ha rappresentato un'impresa
storica straordinaria, per le condizioni in cui si svolse, per i
caratteri e la portata che assunse, per il successo che la coronò
superando le previsioni di molti e premiando le speranze più audaci.
Come si presentò agli occhi del mondo quel risultato? Rileggiamo la
lettera che quello stesso giorno, il 17 marzo 1861, il Presidente del
Consiglio indirizzò a Emanuele Tapparelli D'Azeglio, che reggeva la
Legazione d'Italia a Londra : "Il Parlamento Nazionale ha appena votato
e il Re ha sanzionato la legge in virtù della quale Sua Maestà Vittorio
Emanuele II assume, per sé e per i suoi successori, il titolo di Re
d'Italia. La legalità costituzionale ha così consacrato l'opera di
giustizia e di riparazione che ha restituito l'Italia a se stessa. A
partire da questo giorno, l'Italia afferma a voce alta di fronte al
mondo la propria esistenza. Il diritto che le apparteneva di essere
indipendente e libera, e che essa ha sostenuto sui campi di battaglia e
nei Consigli, l'Italia lo proclama solennemente oggi". Così Cavour, con
parole che rispecchiavano l'emozione e la fierezza per il traguardo
raggiunto : sentimenti, questi, con cui possiamo ancor oggi
identificarci. Il plurisecolare cammino dell'idea d'Italia si era
concluso : quell'idea-guida, per lungo tempo irradiatasi grazie
all'impulso di altissimi messaggi di lingua, letteratura e cultura, si
era fatta strada sempre più largamente, nell'età della rivoluzione
francese e napoleonica e nei decenni successivi, raccogliendo adesioni
e forze combattenti, ispirando rivendicazioni di libertà e moti
rivoluzionari, e infine imponendosi negli anni decisivi per lo sviluppo
del movimento unitario, fino al suo compimento nel 1861. Non c'è
discussione, pur lecita e feconda, sulle ombre, sulle contraddizioni e
tensioni di quel movimento che possa oscurare il dato fondamentale
dello storico balzo in avanti che la nascita del nostro Stato nazionale
rappresentò per l'insieme degli italiani, per le popolazioni di ogni
parte, Nord e Sud, che in esso si unirono. Entrammo, così, insieme,
nella modernità, rimuovendo le barriere che ci precludevano
quell'ingresso. Occorre ricordare qual era la condizione degli italiani
prima dell'unificazione? Facciamolo con le parole di Giuseppe Mazzini -
1845 : "Noi non abbiamo bandiera nostra, non nome politico, non voce
tra le nazioni d'Europa ; non abbiamo centro comune, né patto comune,
né comune mercato. Siamo smembrati in otto Stati, indipendenti l'uno
dall'altro...Otto linee doganali....dividono i nostri interessi
materiali, inceppano il nostro progresso....otto sistemi diversi di
monetazione, di pesi e di misure, di legislazione civile, commerciale e
penale, di ordinamento amministrativo, ci fanno come stranieri gli uni
agli altri". E ancora, proseguiva Mazzini, Stati governati
dispoticamente, "uno dei quali - contenente quasi il quarto della
popolazione italiana - appartiene allo straniero, all'Austria". Eppure,
per Mazzini era indubitabile che una nazione italiana esistesse, e che
non vi fossero "cinque, quattro, tre Italie" ma "una Italia". Fu dunque
la consapevolezza di basilari interessi e pressanti esigenze comuni, e
fu, insieme, una possente aspirazione alla libertà e all'indipendenza,
che condussero all'impegno di schiere di patrioti - aristocratici,
borghesi, operai e popolani, persone colte e incolte, monarchici e
repubblicani - nelle battaglie per l'unificazione nazionale. Battaglie
dure, sanguinose, affrontate con magnifico slancio ideale ed eroica
predisposizione al sacrificio da giovani e giovanissimi, protagonisti
talvolta delle imprese più audaci anche condannate alla sconfitta. E'
giusto che oggi si torni ad onorarne la memoria, rievocando episodi e
figure come stiamo facendo a partire, nel maggio scorso,
dall'anniversario della Spedizione dei Mille, fino all'omaggio, questa
mattina, ai luoghi e ai prodigiosi protagonisti della gloriosa
Repubblica romana del 1849. Sono fonte di orgoglio vivo e attuale per
l'Italia e per gli italiani le vicende risorgimentali da molteplici
punti di vista, ed è sufficiente sottolinearne alcuni. In primo luogo,
la suprema sapienza della guida politica cavouriana, che rese possibile
la convergenza verso un unico, concreto e decisivo traguardo, di
componenti soggettive e oggettive diverse, non facilmente componibili e
anche apertamente confliggenti. In secondo luogo, l'emergere, in seno
alla società e nettamente tra i ceti urbani, nelle città italiane, di
ricche, forse imprevedibili riserve - sensibilità ideali e politiche, e
risorse umane - che si espressero nello slancio dei volontari come
componente attiva essenziale al successo del moto unitario, e in
un'adesione crescente a tale moto da parte non solo di ristrette élite
intellettuali ma di strati sociali non marginali, anche grazie al
diffondersi di nuovi strumenti comunicativi e narrativi. E in terzo
luogo vorrei sottolineare l'eccezionale levatura dei protagonisti del
Risorgimento, degli ispiratori e degli attori del moto unitario. Una
formidabile galleria di ingegni e di personalità - quelle femminili
fino a ieri non abbastanza studiate e ricordate - di uomini di pensiero
e d'azione.
A cominciare, s'intende, dai maggiori : si pensi, non solo a quale
impronta fissata nella storia, ma a quale lascito cui attingere ancora
con rinnovato fervore di studi e generale interesse, rappresentino il
mito mondiale, senza eguali - che non era artificiosa leggenda - di
Giuseppe Garibaldi, e le diverse, egualmente grandi eredità di Cavour,
di Mazzini e di Cattaneo. Quei maggiori, lo sappiamo, tra loro
dissentirono e si combatterono : ma ciascuno di essi sapeva quanto
l'apporto degli altri concorresse al raggiungimento dell'obbiettivo
considerato comune, anche se ciò non valse a cancellare contrasti di
fondo e poi tenaci risentimenti. Ho detto dei principali protagonisti,
ma molti altri nomi - del campo moderato, dell'area cattolico-liberale,
e del campo democratico - potrebbero essere richiamati a testimonianza
di una straordinaria fioritura di personalità di spicco nell'azione
politica, nella società civile, nell'amministrazione pubblica. Questi
fortificanti motivi di orgoglio italiano trovano d'altronde riscontro
nei riconoscimenti che vennero in quello stesso periodo e
successivamente, dall'esterno del nostro paese, da esponenti della
politica e della cultura storica d'altre nazioni ; riconoscimenti della
portata europea della nascita dell'Italia unita, dell'impatto che essa
ebbe su altre vicende di nazionalità in movimento nell'Europa degli
ultimi decenni dell'Ottocento e oltre. Né si può dimenticare
l'orizzonte europeo della visione e dell'azione politica di Cavour, e
la significativa presenza, nel bagaglio ideale risorgimentale, della
generosa utopia degli Stati Uniti d'Europa. Nell'avvicinarsi del
Centocinquantenario si è riacceso in Italia il dibattito sia attorno ai
limiti e ai condizionamenti che pesarono sul processo unitario sia
attorno alle più controverse scelte successive al conseguimento
dell'Unità.
Sorvolare su tali questioni, rimuovere le criticità e negatività del
percorso seguito prima e dopo al 1860-61, sarebbe davvero un cedere
alla tentazione di racconti storici edulcorati e alle insidie della
retorica. Sono però fuorvianti certi clamorosi semplicismi : come
quello dell'immaginare un possibile arrestarsi del movimento per
l'Unità poco oltre il limite di un Regno dell'Alta Italia : di contro a
quella visione più ampiamente inclusiva dell'Italia unita, che
rispondeva all'ideale del movimento nazionale (come Cavour ben
comprese, ci ha insegnato Rosario Romeo) - visione e scelta che
l'impresa garibaldina, la Spedizione dei Mille rese irresistibile.
L'Unità non poté compiersi che scontando limiti di fondo come l'assenza
delle masse contadine, cioè della grande maggioranza, allora, della
popolazione, dalla vita pubblica, e dunque scontando il peso di una
questione sociale potenzialmente esplosiva. L'Unità non poté compiersi
che sotto l'egida dello Stato più avanzato, già caratterizzato in senso
liberale, più aperto e accogliente verso la causa italiana e i suoi
combattenti che vi fosse nella penisola, e cioè sotto l'egida della
dinastia sabauda e della classe politica moderata del Piemonte,
impersonata da Cavour. Fu quella la condizione obbiettiva riconosciuta
con generoso realismo da Garibaldi, pur democratico e repubblicano, col
suo "Italia e Vittorio Emanuele". E se lo scontro tra garibaldini ed
Esercito Regio sull'Aspromonte è rimasto traccia dolorosa dell'aspra
dialettica di posizioni che s'intrecciò col percorso unitario, appare
singolare ogni tendenza a "scoprire" oggi con scandalo come le
battaglie sul campo per l'Unità furono ovviamente anche battaglie tra
italiani, similmente a quanto accadde dovunque vi furono movimenti
nazionali per la libertà e l'indipendenza. Ma al di là di semplicismi e
polemiche strumentali, vale piuttosto la pena di considerare i termini
della riflessione e del dibattito più recente sulle scelte che vennero
adottate subito dopo l'unificazione dalle forze dirigenti del nuovo
Stato. E a questo proposito si sono registrati seri approfondimenti
critici : che non possono tuttavia non collocarsi nel quadro di una
obbiettiva valutazione storica del quadro dell'Italia pre-unitaria
quale era stato ereditato dal nuovo governo e Parlamento nazionale.
Questi si trovarono dinanzi a ferree necessità di sopravvivenza e
sviluppo dello Stato appena nato, che non potevano non prevalere su un
pacato e lungimirante esame delle opzioni in campo, specie quella tra
accentramento, nel segno della continuità e dell'uniformità rispetto
allo Stato piemontese da un lato, e - se non federalismo -
decentramento, con forme di autonomia e autogoverno anche al livello
regionale, dall'altro lato. E a questo proposito vale ancor oggi la
vigorosa sintesi tracciata da un grande storico, che pure fu spirito
eminentemente critico, Gaetano Salvemini. "I governanti italiani, fra
il 1860 e il 1870, si trovavano" - egli scrisse - " alle prese con
formidabili difficoltà". Quello che s'impose era allora - a giudizio di
Salvemini - "il solo ordinamento politico e amministrativo, con cui
potesse essere soddisfatto in Italia il bisogno di indipendenza e di
coesione nazionale". E così, attraverso errori non meno gravi delle
difficoltà da superare, "fu compiuta" - sono ancora parole dello
storico - "un'opera ciclopica. Fu fatto di sette eserciti un esercito
solo...Furono tracciate le prime linee della rete ferroviaria
nazionale. Fu creato un sistema spietato di imposte per sostenere spese
pubbliche crescenti e per pagare l'interesse dei debiti....Furono
rinnovati da cima a fondo i rapporti tra lo Stato e la Chiesa".
E fu debellato il brigantaggio nell'Italia meridionale, anche se
pagando la necessità vitale di sconfiggere quel pericolo di reazione
legittimista e di disgregazione nazionale col prezzo di una repressione
talvolta feroce in risposta alla ferocia del brigantaggio e, nel lungo
periodo, col prezzo di una tendenziale estraneità e ostilità allo Stato
che si sarebbe ancor più radicata nel Mezzogiorno. Da un quadro storico
così drammaticamente condizionato, e da un'"opera ciclopica" di
unificazione, che gettò le basi di un mercato nazionale e di un moderno
sviluppo economico e civile, possiamo trarre oggi motivi di
comprensione del nostro modo di costituirci come Stato, motivi di
orgoglio per quel che 150 anni fa nacque e si iniziò a costruire,
motivi di fiducia nella tradizione di cui in quanto italiani siamo
portatori ; e possiamo in pari tempo trarre piena consapevolezza
critica dei problemi con cui l'Italia dové fare e continua a fare i
conti. Problemi e debolezze di ordine istituzionale e politico, che -
nei decenni successivi all'Unità - hanno inciso in modo determinante
sulle travagliate vicende dello Stato e della società nazionale,
sfociate dopo la prima guerra mondiale in una crisi radicale risolta
con la violenza in chiave autoritaria dal fascismo. Ed egualmente
problemi e debolezze di ordine strutturale, sociale e civile. Sono i
primi problemi quelli che oggi ci appaiono aver trovato - nello scorso
secolo - più valide risposte. Mi riferisco a quel grande fatto di
rinnovamento dello Stato in senso democratico che ha coronato il
riscatto dell'Italia dalla dittatura totalitaria e dal nuovo servaggio
in cui la nazione venne ridotta dalla guerra fascista e dalla disfatta
che la concluse.
Un riscatto reso possibile dall'emergere delle forze tempratesi
nell'antifascismo, e dalla mobilitazione partigiana, cui si
affiancarono nella Resistenza le schiere dei militari rimasti fedeli al
giuramento. Un riscatto che culminò nella eccezionale temperie ideale e
culturale e nel forte clima unitario - più forte delle diversità
storiche e delle fratture ideologiche - dell'Assemblea Costituente. Con
la Costituzione approvata nel dicembre 1947 prese finalmente corpo un
nuovo disegno statuale, fondato su un sistema di principi e di garanzie
da cui l'ordinamento della Repubblica, pur nella sua prevedibile e
praticabile evoluzione, non potesse prescindere. Come venne
esplicitamente indicato nella relazione Ruini sul progetto di
Costituzione, "l'innovazione più profonda" consisteva nel poggiare
l'ordinamento dello Stato su basi di autonomia, secondo il principio
fondamentale dell'articolo 5 che legò l'unità e indivisibilità della
Repubblica al riconoscimento e alla promozione delle autonomie locali,
riferite, nella seconda parte della Carta, a Regioni, Provincie e
Comuni. E altrettanto esplicitamente, nella relazione Ruini, si
presentò tale innovazione come correttiva dell'accentramento prevalso
all'atto dell'unificazione nazionale. La successiva pluridecennale
esperienza delle lentezze, insufficienze e distorsioni registratesi
nell'attuazione di quel principio e di quelle norme costituzionali, ha
condotto dieci anni fa alla revisione del Titolo V della Carta. E non è
un caso che sia quella l'unica rilevante riforma della Costituzione che
finora il Parlamento abbia approvato, il corpo elettorale abbia
confermato e governi di diverso orientamento politico si siano
impegnati ad applicare concretamente. E' stata in definitiva recuperata
l'ispirazione federalista che si presentò in varie forme ma non ebbe
fortuna nello sviluppo e a conclusione del moto unitario. All'indomani
dell'unificazione, anche i progetti moderatamente autonomistici che
erano stati predisposti in seno al governo, cedettero il passo ai
timori e agli imperativi dominanti, già nel breve tempo che a Cavour fu
ancora dato di vivere e nonostante la sua ribadita posizione di
principio ostile all'accentramento benché non favorevole al
federalismo. E oggi dell'unificazione celebriamo l'anniversario vedendo
l'attenzione pubblica rivolta a verificare le condizioni alle quali
un'evoluzione in senso federalistico - e non solo nel campo finanziario
- potrà garantire maggiore autonomia e responsabilità alle istituzioni
regionali e locali rinnovando e rafforzando le basi dell'unità
nazionale. E' tale rafforzamento, e non il suo contrario, l'autentico
fine da perseguire. D'altronde, nella nostra storia e nella nostra
visione, la parola unità si sposa con altre : pluralità, diversità,
solidarietà, sussidiarietà. In quanto ai problemi e alle debolezze di
ordine strutturale, sociale e civile cui ho poc'anzi fatto cenno e che
abbiamo ereditato tra le incompiutezze dell'unificazione perpetuatesi
fino ai nostri giorni, è il divario tra Nord e Sud, è la condizione del
Mezzogiorno che si colloca al centro delle nostre preoccupazioni e
responsabilità nazionali. Ed è rispetto a questa questione che più
tardano a venire risposte adeguate. Pesa certamente l'esperienza dei
tentativi e degli sforzi portati avanti a più riprese nei decenni
dell'Italia repubblicana e rimasti non senza frutti ma senza risultati
risolutivi ; pesa altresì l'oscurarsi della consapevolezza delle
potenzialità che il Mezzogiorno offre per un nuovo sviluppo complessivo
del paese e che sarebbe fatale per tutti non saper valorizzare.
Proprio guardando a questa cruciale questione, vale il richiamo a fare
del Centocinquantenario dell'Unità d'Italia l'occasione per una
profonda riflessione critica, per quello che ho chiamato "un esame di
coscienza collettivo". Un esame cui in nessuna parte del paese ci si
può sottrarre, e a cui è essenziale il contributo di una severa
riflessione sui propri comportamenti da parte delle classi dirigenti e
dei cittadini dello stesso Mezzogiorno. E' da riferire per molti
aspetti e in non lieve misura al Mezzogiorno, ma va vista nella sua
complessiva caratterizzazione e valenza nazionale, la questione
sociale, delle disuguaglianze, delle ingiustizie - delle pesanti
penalizzazioni per una parte della società - quale oggi si presenta in
Italia. Anche qui ci sono eredità storiche, debolezze antiche con cui
fare i conti, a cominciare da quella di una cronica insufficienza di
possibilità di occupazione, che nel passato, e ancora dopo l'avvento
della Repubblica, fece dell'Italia un paese di massiccia emigrazione e
oggi convive con il complesso fenomeno del flusso immigratorio, del
lavoro degli immigrati e della loro necessaria integrazione. Senza
temere di eccedere nella sommarietà di questo mio riferimento alla
questione sociale, dico che la si deve vedere innanzitutto come
drammatica carenza di prospettive di occupazione e di valorizzazione
delle proprie potenzialità per una parte rilevante delle giovani
generazioni. E non c'è dubbio che la risposta vada in generale trovata
in una nuova qualità e in un accresciuto dinamismo del nostro sviluppo
economico, facendo leva sul ruolo di protagonisti che in ogni fase di
costruzione, ricostruzione e crescita dell'economia nazionale hanno
assolto e sono oggi egualmente chiamati ad assolvere il mondo
dell'impresa e il mondo del lavoro, passati entrambi, in oltre un
secolo, attraverso profonde, decisive trasformazioni. Ma non è certo
mia intenzione passare qui in rassegna l'insieme delle prove che ci
attendono. Vorrei solo condividessimo la convinzione che esse
costituiscono delle autentiche sfide, quanto mai impegnative e per
molti aspetti assai dure, tali da richiedere grande spirito di
sacrificio e slancio innovativo, in una rinnovata e realistica visione
dell'interesse generale. La carica di fiducia che ci è indispensabile
dobbiamo ricavarla dalla esperienza del superamento di molte ardue
prove nel corso della nostra storia nazionale e dal consolidamento di
punti di riferimento fondamentali per il nostro futuro. Una prova di
straordinaria difficoltà e importanza l'Italia unita ha superato
affrontando e via via sciogliendo il conflitto con la Chiesa cattolica.
Dopo il 1861 l'obbiettivo della piena unificazione nazionale fu
perseguito e raggiunto anche con la terza guerra d'indipendenza nel
1866 e a conclusione della guerra 1915-18 : ma irrinunciabile era
l'obbiettivo di dare in tempi non lunghi al nascente Stato italiano
Roma come capitale, la cui conquista per via militare - fallito ogni
tentativo negoziale - fece precipitare inevitabilmente il conflitto con
il Papato e la Chiesa. Ma esso fu avviato a soluzione con
un'intelligenza, moderazione e capacità di mediazione di cui già lo
Stato liberale diede il segno con la Legge delle guarentigie nel 1871 e
che - sottoscritti nel 1929 e infine recepiti in Costituzione i Patti
Lateranensi - sfociò in tempi recenti nella revisione del Concordato.
Si ebbe di mira, da parte italiana, il fine della laicità dello Stato e
della libertà religiosa e insieme il graduale superamento di ogni
separazione e contrapposizione tra laici e cattolici nella vita sociale
e nella vita pubblica. Un fine, e un traguardo, perseguiti e pienamente
garantiti dalla Costituzione repubblicana e proiettatisi sempre di più
in un rapporto altamente costruttivo e in una "collaborazione per la
promozione dell'uomo e il bene del paese" - anche attraverso il
riconoscimento del ruolo sociale e pubblico della Chiesa cattolica e,
insieme, nella garanzia del pluralismo religioso. Questo rapporto si
manifesta oggi come uno dei punti di forza su cui possiamo far leva per
il consolidamento della coesione e unità nazionale. Ce ne ha dato la
più alta testimonianza il messaggio augurale indirizzatomi per
l'odierno anniversario - e lo ringrazio - dal Papa Benedetto XVI. Un
messaggio che sapientemente richiama il contributo fondamentale del
Cristianesimo alla formazione, nei secoli, dell'identità italiana, così
come il coinvolgimento di esponenti del mondo cattolico nella
costruzione dello Stato unitario, fino all'incancellabile apporto dei
cattolici e della loro scuola di pensiero alla elaborazione della
Costituzione repubblicana, e al loro successivo affermarsi nella vita
politica, sociale e civile nazionale. Ma quante prove superate e quanti
momenti alti vissuti nel corso della nostra storia potremmo richiamare
a sostegno della fiducia che deve guidarci di fronte alle sfide di oggi
e del futuro! Anche a voler solo considerare il periodo successivo alla
sconfitta e al crollo del 1943 e poi alla Resistenza e alla nascita
della Repubblica, è ancora incancellabile nell'animo di quanti come me,
giovanissimi, attraversarono quel passaggio cruciale, la memoria di un
abisso di distruzione e generale arretramento da cui potevamo temere di
non riuscire a risollevarci. Eppure l'Italia unita, dopo aver
scongiurato con sapienza politica rischi di separatismo e di
amputazione del territorio nazionale, riuscì a rimettersi in piedi. Il
primo, e forse più autentico "miracolo", fu la ricostruzione, e quindi
- nonostante aspri conflitti ideologici, politici e sociali - il balzo
in avanti, oltre ogni previsione, dell'economia italiana, le cui basi
erano state gettate nel primo cinquantennio di vita dello Stato
nazionale. L'Italia entrò allora a far parte dell'area dei paesi più
industrializzati e progrediti, nella quale poté fare ingresso e oggi
resta collocata grazie alla più grande invenzione storica di cui essa
ha saputo farsi protagonista a partire dagli anni '50 dello scorso
secolo : l'integrazione europea. Quella divenne ed è anche l'essenziale
cerniera di una sempre più attiva proiezione dell'Italia nella più
vasta comunità transatlantica e internazionale. La nostra collocazione
convinta, senza riserve, assertiva e propulsiva nell'Europa unita,
resta la chance più grande di cui disponiamo per portarci all'altezza
delle sfide, delle opportunità e delle problematicità della
globalizzazione. Prove egualmente rischiose e difficili abbiamo dovuto
superare, nell'Italia repubblicana, sul terreno della difesa e del
consolidamento delle istituzioni democratiche.
Mi riferisco a insidie subdole e penetranti, così come ad attacchi
violenti e diffusi - stragismo e terrorismo - che non fu facile
sventare e che si riuscì a debellare grazie al solido ancoraggio della
Costituzione e grazie alla forza di molteplici forme di partecipazione
sociale e politica democratica ; risorse sulle quali sempre fa
affidamento la lotta contro l'ancora devastante fenomeno della
criminalità organizzata. In tutte quelle circostanze, ha operato, e ha
deciso a favore del successo, un forte cemento unitario, impensabile
senza identità nazionale condivisa. Fattori determinanti di questa
nostra identità italiana sono la lingua e la cultura, il patrimonio
storico-artistico e storico-naturale : bisognerebbe non dimenticarsene
mai, è lì forse il principale segreto dell'attrazione e simpatia che
l'Italia suscita nel mondo.
E parlo di espressioni della cultura e dell'arte italiana anche in
tempi recenti : basti citare il rilancio nei diversi continenti della
nostra grande, peculiare tradizione musicale, o il contributo del
migliore cinema italiano nel rappresentare la realtà e trasmettere
l'immagine, ovunque, del nostro paese. Ma dell'identità nazionale è
innanzitutto componente primaria il senso di patria, l'amor di patria
emerso e riemerso tra gli italiani attraverso vicende anche laceranti e
fuorvianti. Aver riscoperto - dopo il fascismo - quel valore e farsene
banditori non può esser confuso con qualsiasi cedimento al
nazionalismo. Abbiamo conosciuto i guasti e pagato i costi della boria
nazionalistica, delle pretese aggressive verso altri popoli e delle
degenerazioni razzistiche. Ma ce ne siamo liberati, così come se ne
sono liberati tutti i paesi e i popoli unitisi in un'Europa senza
frontiere, in un'Europa di pace e cooperazione. E dunque nessun
impaccio è giustificabile, nessun impaccio può trattenerci dal
manifestare - lo dobbiamo anche a quanti con la bandiera tricolore
operano e rischiano la vita nelle missioni internazionali - la nostra
fierezza nazionale, il nostro attaccamento alla patria italiana, per
tutto quel che di nobile e vitale la nostra nazione ha espresso nel
corso della sua lunga storia. E potremo tanto meglio manifestare la
nostra fierezza nazionale, quanto più ciascuno di noi saprà mostrare
umiltà nell'assolvere i propri doveri pubblici, nel servire ad ogni
livello lo Stato e i cittadini.
Infine, non ha nulla di riduttivo il legare patriottismo e
Costituzione, come feci in quest'Aula in occasione del 60° anniversario
della Carta del 1948. Una Carta che rappresenta tuttora la valida base
del nostro vivere comune, offrendo - insieme con un ordinamento
riformabile attraverso sforzi condivisi - un corpo di principii e di
valori in cui tutti possono riconoscersi perché essi rendono tangibile
e feconda, aprendola al futuro, l'idea di patria e segnano il grande
quadro regolatore delle libere battaglie e competizioni politiche,
sociali e civili. Valgano dunque le celebrazioni del
Centocinquantenario a diffondere e approfondire tra gli italiani il
senso della missione e dell'unità nazionale : come appare tanto più
necessario quanto più lucidamente guardiamo al mondo che ci circonda,
con le sue promesse di futuro migliore e più giusto e con le sue tante
incognite, anche quelle misteriose e terribili che ci riserva la
natura. Reggeremo - in questo gran mare aperto - alle prove che ci
attendono, come abbiamo fatto in momenti cruciali del passato, perché
disponiamo anche oggi di grandi riserve di risorse umane e morali. Ma
ci riusciremo ad una condizione : che operi nuovamente un forte cemento
nazionale unitario, non eroso e dissolto da cieche partigianerie, da
perdite diffuse del senso del limite e della responsabilità. Non so
quando e come ciò accadrà ; confido che accada ; convinciamoci tutti,
nel profondo, che questa è ormai la condizione della salvezza comune,
del comune progresso. Viva la Repubblica. Viva l'Italia unita.
(da http://affaritaliani.libero.it/)
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