Ai Ragazzi che Sopravvivono
Data: Domenica, 27 marzo 2005 ore 23:22:47 CEST
Argomento: Opinioni


Piero Fassino risponde all’articolo di Lucia Castellini sul problema del precariato pubblicato su l’Unità del 24 Marzo.

Ho letto con un misto di ammirazione e angoscia lo sfogo di Lucia Castellini, l’altro ieri sulle colonne de l’Unità. Lucia è una giovane donna, laureata e che vive a Milano. Dovrei dire che «sopravvive» a Milano, stretta com’è tra i ricatti della precarietà e l’aspirazione a un’esistenza normale. Quella che ti permette di accedere a un mutuo o comprarti lo stereo a rate o concederti ogni tanto un weekend di turismo. La sua storia ci riguarda, riguarda la politica intendo. Lucia ci racconta di sé, con una sincerità disarmante, velata a tratti da ironia o disillusione. Ma soprattutto, come lei stessa in fondo riconosce, lo fa riassumendo i tratti di una generazione intera, forse due.
Tanto per capirci, i nostri trentenni. Ragazze e ragazzi che stavano ancora sui banchi di scuola mentre esplodeva Tangentopoli e che studiavano all’Università quando, con i governi dell’Ulivo, l’Italia risanava i conti pubblici devastati o inseguiva, orgogliosa, il traguardo dell’euro. Quella generazione oggi è cresciuta e si è fatta adulta sotto i nostri occhi. Tanto adulta da porre domande che una classe dirigente seria non può eludere pena il suo fallimento.
Che cosa ci chiede concretamente questa generazione? Quali esigenze di fondo solleva? Almeno due. Una apparentemente più materiale, l’altra - certamente più complessa - la definirei «di senso». Da una parte, c’è la richiesta quotidiana, concreta, di «cittadinanza». Non è difficile capire cosa significa, si può campare all’infinito senza uno straccio di certezza sul proprio avvenire, compreso quello a breve o medio termine? Si può vivere stabilmente senza alcune garanzie di stabilità? Senza un contratto di lavoro che duri più di un semestre? Senza la possibilità di acquistare una casa, fosse anche solo un modesto bilocale? Senza la possibilità di programmare un figlio? La risposta, per forza di cose, è negativa. Una società che costringe una o due generazioni nel limbo di una precarietà senza ritorno è destinata, lo voglia o meno, a compromettere la parte più dinamica e vitale delle sue risorse. È una società votata a invecchiare male, attraversata da rancori, rabbia, risentimenti. Soprattutto è una società sconfitta nelle sue fondamenta, perché inadeguata a fronteggiare una domanda fisiologica di rinnovamento del suo tessuto produttivo e della sua classe dirigente.
So bene che stiamo parlando di questioni complesse. I sociologi lo definirebbero un problema «di sistema». L’invecchiamento della popolazione, l’innovazione tecnologica, la competizione di aree del pianeta dove la manodopera costa un decimo che da noi, solo per citare i titoli con i quali mercati, economia e politica sono chiamati a misurarsi. Tutto ciò però non può trasformarsi in una giustificazione di impotenza. Sensibilità, infatti, non può e non deve significare necessariamente precarietà. Nessuno può pensare che l’impresa moderna posta dinanzi alla sfida di una competizione globale faccia a meno di una quota di flessibilità. Il punto è concepire, però, quella quota nella logica di uno scambio che preveda anche per chi è occupato in una prestazione temporanea condizioni ambientali, diritti e una qualificazione del lavoro non penalizzanti. Ciò esige buone leggi a garanzia di una contrattazione collettiva in grado di non lasciare il singolo cittadino in balia di se stesso.
Cosa ben diversa - e Lucia lo spiega bene nella sua lettera - è sentirsi completamente alla mercè dell’azienda, senza un diritto certo e quasi sempre con un salario inadeguato nonostante una scolarizzazione mediamente elevata. So bene che questa contraddizione non si risolve invocando un ritorno al passato. Ma neppure si può destinare una generazione intera a errare nel deserto dei lavori sino a quarant’anni, condannandola a una stabilizzazione effimera. La sfida per la politica, e per la sinistra, è perciò trovare le risposte adatte a questo problema, garantendo a chi è «flessibile» di non essere precario e assicurando a ogni cittadino - quale che sia il suo lavoro e il tipo di contratto che lo regola - uguali retribuzioni, uguali diritti, uguali tutele.
E qui entra in gioco la seconda esigenza posta da Lucia e da tanti giovani come lei: una domanda «di senso». Il fatto nuovo e positivo è che questa generazione dopo anni nei quali ha subito in solitudine una condizione di vita assunta quasi come un destino individuale, pone problemi collettivi che alludono nuovamente alla dignità del lavoro, alla sua qualità, al suo valore umano e sociale. C’è una presa d’atto dei problemi che si trasforma in presa di coscienza e che deve aprire la via a una stagione di impegno comune per affermare libertà, diritti e garanzie. Uno sviluppo di qualità ha bisogno di una partecipazione intelligente al lavoro. Esige formazione, aggiornamento, cultura del saper fare, cooperazione. Tu ti aspetti che l’impresa moderna - l’impresa sana - deve avere a cuore se sceglie, come la competitività impone di fare, di investire sul principale patrimonio, che sono appunto le risorse umane delle quali dispone.
La politica deve stimolare questa tendenza, anche con provvedimenti in grado di favorire una stabilizzazione del lavoro. Servono incentivi fiscali, come il credito di imposta, per imprenditori disposti ad assumere giovani e a tempo indeterminato. Serve un sistema previdenziale con la possibilità di sommare tutti i contributi, anche se versati a casse pensionistiche diverse, e garantendo contributi figurativi anche a copertura dei periodi di non lavoro. Servono forme di rappresentanza sindacale e di contrattazione che consentano tutela anche a chi ha un lavoro mobile. Serve una formazione permanente che accompagni il lavoratore ed eviti che ogni cambio di lavoro sia un salto nel buio.
Come si vede si tratta di questioni serie e difficili. Ma sono convinto che da qui dovremo passare: da un recupero di dialogo e fiducia con quella generazione che, più di altre, soffre oggi la crisi e il potenziale declino della nostra economia. Quella generazione che - come nel caso di Lucia - chiede alla politica soluzioni chiare per problemi che sarebbe sciagurato non affrontare adesso, prima che sia troppo tardi. Insomma: al centro del programma di governo dell’Unione e dell’Ulivo dovrà trovare spazio un pacchetto di proposte rivolto a quel milione di ragazze e ragazzi che, al pari di Lucia, attendono da un governo diverso una svolta credibile. La nostra sfida starà anche in questo.





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