L’ultima spiaggia della scuola umiliata
Data: Martedì, 15 marzo 2011 ore 07:23:18 CET Argomento: Rassegna stampa
Improvvisamente
assistiamo ad una levata di scudi, a un sorgere di petizioni, raccolte
di firme, dichiarazioni indignate in difesa della scuola pubblica. Dopo
le parole di Berlusconi (“poter educare liberamente i figli
vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove
ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono
il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli,
educandoli nell’ambito della loro famiglia”) il gioco è facile: tutti a
difendere la scuola pubblica. Persino Mastrocola, famosissima
picconatrice della scuola da dentro la scuola – l’ultimo
scritto, Togliamo il disturbo, non affida nemmeno al beneficio di
un punto interrogativo la possibilità di continuare ad assegnare un
qualche senso alla scuola – è stata interpellata in
merito, rispondendo alla sua maniera: inutile commentare in questa
sede.
Tutto molto facile, però occorre allargare lo sguardo. Perché nel
momento dell’emergenza la difesa d’ufficio è cosa semplice. Ma siamo
davvero convinti che Berlusconi si permetta di esternare solo per via
di una totale incapacità di porre freni inibitori alle pulsioni
incontenibili del suo galoppante delirio egotico e della sua fantasiosa
interpretazione di ciò che dovrebbe essere un premier di un Paese
davvero democratico?
“Fino a sette anni, i bambini parlano una lingua corposa, ricca,
divertente: migliore di quella degli adulti che, lì vicino, fanno
pettegolezzi o dicono barzellette. Poi vanno a scuola, ascoltano i
discorsi dei professori e dei presidi, e la loro lingua si
degrada”.Così Citati, qualche tempo fa, su “Repubblica”. Pietro Citati,
di cui ho amato i libri, i suoi Manzoni, Tolstoj, Kafka, Leopardi.
Pietro Citati che continua: “Paola Mastrocola ama i suoi ragazzi
perennemente annoiati, e in quei lunghi sbadigli percepisce delusioni,
desideri, speranze. Quando guarda verso le cattedre, si accorge che i
professori non posseggono il dono di insegnare. Nel mondo e nei libri,
non esiste quasi nulla di noioso: tutto è misterioso, concentrato,
enigmatico, affascinante. Basta saper capire e interpretare: ma i
professori lasciano spento ciò che era spento, morto ciò che era morto.
Sopra il loro capo, ci sono i volti dei presidi: sopra quello dei
presidi, i sottosegretari; sopra quello dei sottosegretari,
l’intelligenza sovrana dei Ministri-Riformatori. I Ministri hanno
pretese grandiose, che si possono riassumere in pochissime parole:
smantellare, mattone dopo mattone, la scuola: distruggere in pochi
anni, o pochi mesi, gli studi, la lingua, il lessico, i significati, i
vocabolari. Bisogna ammettere che ci sono riusciti. Oggi, all’inizio
del febbraio 2011, rimane soltanto una vaga sembianza di quella che fu
la scuola italiana.”
Una visione sconsolante: il senso di un fallimento, coniugato al
disprezzo – sì, disprezzo – da parte di un intellettuale che si
affaccia dall’ombrellone (punto di osservazione dal quale, per sua
stessa ammissione, fa analisi, diagnosi e prognosi sulle prospettive di
quei bambini di 7 anni ) a guardare disgustato le umane sorti,
emettendo un verdetto senza appello. E – mi si consenta – probabilmente
piuttosto privo di cognizione di causa tanto esso risulta
generalizzato, incauto, scarsamente analitico del contesto, dei
contesti.
Io non credo certo che la scuola così com’è vada bene per assolvere il
mandato che la Costituzione le ha affidato in quanto istituzione della
Repubblica: licenziare cittadini consapevoli da una parte, e rimuovere
gli ostacoli che impediscono la libera e completa espressione
dell’individuo dall’altra, in una continua e complessa dialettica tra
finalità culturali e obiettivi di inclusione. Scuola di tutti:
cittadinanza culturale e sviluppo delle capacità critiche attraverso
uguaglianza, emancipazione, pensiero divergente, laicità.
Sappiamo tutti che questi principi altissimi stentano a trovare una
applicazione convincente in un mondo che cambia vertiginosamente a
fronte di una scuola che è rimasta nell’impostazione e nelle pratiche
sostanzialmente identica a se stessa.
Sappiamo anche che la ricerca del perché, del cosa, del come fornire
chiavi di lettura per interpretare la complessità e la diversità – le
due cifre dell’oggi – spesso si polverizza nelle inerzie, negli
immobilismi, nelle abitudini tranquillizzanti.
Ciò non toglie che la scuola dello Stato (l’istituzione scuola) da
molti anni – di cui gli ultimi, quelli della gestione Gelmini,
rappresentano il momento più drammatico – sta facendo faticosamente
fronte a situazioni di lavoro quotidiano proibitive per garantire il
diritto allo studio e agli apprendimenti. Quelle – peraltro – trattate
dai grandi osservatori/opinionisti/interpreti delle cose di casa nostra
con il silenzio e con il disinteresse.
Siamo costretti a patire – ma non a subire passivamente – un premier
logorroico, egotico e delirante, incapace di frapporre tra la sua
personalistica idea del mondo e le parole che pubblicamente proferisce
alcun senso di responsabilità istituzionale.
Siamo costretti a tollerare i sodali e i lacchè del premier stesso,
incapaci di contrapporsi alle irresponsabili esternazioni se non con un
pavido silenzio, quando non con la spudorata negazione del contenuto
stesso della esternazione.
Ci piacerebbe almeno – come insegnanti e prima ancora come cittadini –
poter contare su un’intellighenzia in grado di rispettare il
confine tra lecito e illecito; tra analisi critica e dileggio,
ingiuria, altrettanto irresponsabili omologazioni del caso singolo
all’intera generalità, della patologia del sistema al sistema stesso.
L’attacco frontale alla scuola della di Stato è iniziato più o meno tra
il 2006 e il 2007. In quel periodo – durante il governo di centro
sinistra e il ministero Fioroni – i media hanno inaugurato una
periodica, implacabile campagna di informazione a senso unico: quella
sulla mala scuola.
All’“anno zero” del bullismo fu dato il via dai filmati
dell’aggressione, diffusa su Internet, a un ragazzo disabile di 17 anni
in una scuola di Torino. Da allora il binomio scuola-bullismo è stato
riproposto con asfissiante puntualità, come se prima gli istituti
italiani non avessero mai assistito ad episodi incresciosi. Un po’ come
per la pedofilia, la cassa di risonanza dei media e l’abuso della rete
hanno proiettato nell’immaginario collettivo un fenomeno esistente da
sempre e raramente nominato.
Non a caso contemporaneamente, su altro fronte, si registrò l’ondata
delle reprimende degli editorialisti: il cahier de
doléance di signori che – autorevoli e competenti nei propri
specifici campi, comunque diversi dalla scuola – si affannavano a
lanciare denunce e strali indiscriminati contro gli insegnanti.
Suggerendo formule definitive ed intransigenti, forti del semplice
fatto di aver frequentato in un tempo più o meno remoto la scuola.
La punta di diamante in questo senso fu un editoriale di Pietro Ichino,
che consegnava un identikit di straordinario e irrispettoso
qualunquismo dell’insegnante italiano, identificato nella figura del
prof. M., meridionale immigrato in un liceo di Milano, ritardatario,
nullafacente, assenteista; insomma, pane per i denti di Brunetta, che
non a caso usa rivolgersi ai docenti con occhio nostalgico per quella
iconografia.
Un’immagine che ha dato voce ad un sentire comune, che individua nella
classe docente l’alfa e l’omega dei mali della nostra società:
rubastipendio, privilegiati, spesso incompetenti, beneficiati da
mesi di vacanza e da orari di lavoro ingiustamente leggeri. L’epica del
fannullonismo ha sferrato un colpo definitivo alla percezione
collettiva della scuola dello Stato, arretrando ulteriormente il limite
di accettabilità delle sconsiderate affermazioni di cui spesso essa è
stata bersaglio. Si è trattato della punta di diamante di
quell’operazione di distruzione del rispetto istituzionale che uno
strumento costituzionale, 8 milioni di studenti e un milione e mezzo di
lavoratori meriterebbero; e che invece ha consentito a Brunetta di
considerare la scuola esclusivamente come una branca della Pubblica
Amministrazione, restringendone le maglie dei diritti contrattuali e,
soprattutto, della libertà di pensiero. Con la complicità e il gentile
aiuto, nel tempo, di Galli della Loggia, Panebianco, Giavazzi e soci.
Il tentativo di restyling di Berlusconi che prova a
riproporre una propria credibilità attraverso la squallida e
manipolatoria evocazione di un formulario di facile impatto (famiglia,
antisessantottismo, valori) è l’ultimo espediente per ingraziarsi
una platea integralista e per ammiccare alle gerarchie vaticane,
mirando ad ottenere assoluzione senza confessione delle sue vicende
personali e politiche.
Ciò non toglie peso alla gravità delle sue affermazioni e mette in
luce, se ancora ce ne fosse bisogno, il vero obiettivo dell’azione del
governo: la distruzione della scuola dello Stato e insieme il
senso di una contraddizione talmente drammatica di ruoli e funzioni, in
un conflitto istituzionale premeditato che ha ormai il segno della
ineludibilità.
D’altra parte viviamo in un Paese in cui l’analfabetismo istituzionale
è pane quotidiano. Si pensi alle dichiarazioni della fedele Gelmini, in
difesa delle esternazioni del premier: “«Il pensiero di chi vuol
leggere nelle parole del premier un attacco alla scuola pubblica è
figlio della erronea contrapposizione tra scuola statale e scuola
paritaria. Per noi, e secondo quanto afferma la Costituzione italiana,
la scuola può essere sia statale, sia paritaria. In entrambi i casi è
un’istituzione pubblica, cioè al servizio dei cittadini». Il
travisamento dei principi giuridici è totale, come ha limpidamente
dimostrato Salvatore Settis su “Repubblica”. E tale proterva e impudica
incompetenza dice molto del fallimento del progetto – in realtà una
“soletta” pubblicitaria – di inserire Cittadinanza e Costituzione tra
gli insegnamenti obbligatori, fallito e scongiurato dal taglio delle
ore di Storia e di Diritto.
Il gioco è chiaro, le manovre sono scoperte. Passata l’ondata di facile
indignazione, rimarrà una scuola dello Stato sempre più povera e sempre
più sola a doversi difendere dagli attacchi proprio di chi dovrebbe
garantirne il rispetto, l’integrità, il funzionamento. E dai vaticini
dei perenni soloni, stigmatizzatori di sempre, nostalgici o post
moderni cantori di soluzioni efficaci solo per la carta stampata e per
qualche titolo di giornale.
Tutti gli insegnanti, gli studenti e i genitori che continuano a
concepire la scuola dello Stato come strumento
supremohttp://www.quirinale.it/qrnw/statico/costituzione/costituzione.htm dell’art.
3 della Costituzione devono opporsi quotidianamente e non solo nei
momenti di emergenza a questi irresponsabili accanimenti nel
delegittimare uno strumento di emancipazione, di educazione, di
cittadinanza per tutte e per tutti.
La scuola dello Stato, anche così com’è, anche nella sua imperfezione,
nelle sue criticità, nella sua difficoltà a rispondere a tutte le
domande che vengono da fuori, nella parziale incapacità, a volte, di
fornire significative chiavi per interpretare il mondo, è al momento
uno dei rari e residui presidi di civiltà e un baluardo contro la
perdita di direzione di questo nostro sventurato Paese. Essa è infatti
il luogo in cui la comunità educante agisce nella direzione della
coesione e non della frantumazione, in nome dell’interesse generale e
non di risposte a domande individuali. (di Marina Boscaino)
redazione@aetnanet.org
|
|