Costituzione. La vera storia dell’articolo 33
Data: Lunedì, 14 marzo 2011 ore 13:00:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


Uno dei nodi più caldi del dibattito sull’istruzione in Italia ruota attorno al ruolo della scuola «privata» e il suo rapporto con l’istruzione pubblica e i finanziamenti da parte dello Stato. Tra le questioni più dibattute c’è quella del senso del dettato costituzionale, di quel famoso articolo 33 della Carta che reca un inciso relativo all’istruzione nelle scuole paritarie: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Molti hanno infatti sostenuto che questo articolo neghi la possibilità allo Stato di erogare qualsiasi tipo di finanziamento a questi istituti. In realtà se si esamina non solo il testo costituzionale ma anche il testo dei lavori preparatori dei padri costituenti ci si rende subito conto che questa interpretazione restrittiva è quantomeno «antistorica» (un’ottima lettura a riguardo è «La buona scuola pubblica per tutti. Statale e Paritaria» edito da Giuseppe Laterza).    (da http://www.ilgiornale.it/)
L’onorevole Epicarmo Corbino, appartenente al gruppo misto, infatti propose quell’inciso, che riuscì a far introdurre, precisando che: «La norma avrebbe dovuto solo escludere che lo Stato potesse ritenersi obbligato a finanziare le scuole non statali per il semplice fatto della loro esistenza, non dovendosi però escludere la facoltà per lo stato di effettuare questi interventi nei casi e nei modi ritenuti più opportuni». Qualcuno obietterà che se l’inciso è da intendersi in questo modo quel «senza oneri» è un pleonasmo. All’epoca lo giudicò così anche Giovanni Gronchi (Dc). Ma l’onorevole Corbino e l’onorevole Codignola difesero la formulazione che venne approvata e, appunto, nel difenderla la spiegarono. Quindi si può pensare quello che si vuole del finanziamento alle scuole paritarie. Ma per negarne la validità è meglio lasciar stare la Costituzione italiana.


Fin dall’800 lo Stato confonde istruzione con omologazione (da http://www.ilgiornale.it/)

Quando il Regno d’Ita­lia creato dall’espan­sionismo dei Savoia e dall’idealismo un po’ sconclusionato di Garibaldi vide la luce, la nota espressio­ne di Massimo D’Azeglio su­gli italiani «da farsi» ebbe il merito di fotografare alcuni elementi della situazione ve­nutasi a creare. A dispetto di una storia articolata e di inte­ressi divergenti, l’Italia del 1861 calava istituzioni unita­rie su città e regioni del tutto disomogenee. La realtà cede­va il posto all’ideologia, dato che il progetto nazionale, «fa­re gli italiani», era impregna­to di un costruttivismo socia­le - un delirio da pianificatori - che avrebbe ristretto le liber­tà e causato enormi danni. La scuola pubblica obbliga­toria appartiene a questa logi­ca: non tanto e in primo luo­go, come spesso si sente dire, sulla base di motivazioni umanitarie, ma invece al fine di realizzare una società che fosse coerente con gli schemi culturali e gli obiettivi politi­co- militari dell’élite al pote­re. L’Italia di metà Ottocento era cattolica e vernacolare: per nulla disposta, dunque, a «morire per la patria». La reli­gione civile e patriottarda aveva allora bisogno di mae­stri che fossero manipolatori delle coscienze: non già edu­catori scelti dalle famiglie, ma imbonitori d’apparato, nutriti di quella religione se­colarizzata che coincide con la celebrazione della Patria. Al riguardo ci sono tre libri che meglio di tanti altri aiuta­n o a cogliere il significato che la scuola statale, in Italia e al­trove, è venuta ad assumere: Cuore del socialista-naziona­le Edmondo De Amicis, un in­digeribile libro per ragazzi ca­rico di suggestioni che- ovvia­mente - piaceranno tantissi­mo agli alfieri della cultura fa­scista; Niente di nuovo sul fronte occidentale del pacifi­sta Erich Maria Remarque, che mostra come l’inutile strage delle trincee sia stata preparata dal lavaggio del cervello operato dai professo­ri tedeschi innamorati del Se­condo Reich; e, infine, I mi­sfatti dell’istruzione pubblica di Denis de Rougemont, un delizioso libretto sullo squal­lore di scuole gestite come uf­fici postali, dove si evidenzia che la massificazione demo­cratica h a bisogno di una cul­tura mediocre e istituzioni to­talizzanti. La situazione ora è diversa, ma non del tutto. Anche se la classe docente del nostro tempo è più propensa a cele­brare il terzomondismo che il primato degli Italiani, e an­che se indulge a u n pacifismo sciocco piuttosto al militari­smo di primo Novecento, è pur vero che oggi come allora l’esercito malpagato degli in­segnanti pubblici continua a lavorare per il Re di Prussia: fuor di metafora, sono cam­biati gli slogan ed è mutata la retorica, ma i docenti statiz­zati seguitano a sposare le po­sizioni più conformiste e, nei fatti, più vantaggiose per il blocco sociale dello status quo . Se nelle scuole pubbliche a troppi studenti sono propina­ti banalità ecologiste e solida­rismo d’accatto, per avere un’istruzione di altro tipo questo ambito va restituito al­le famiglie, agli studenti, ai professori stessi. Le scuole devono essere tolte allo Stato e ridate alla società, affinché competano liberamente: sce­gliendo i propri insegnanti, delineando i propri program­mi, definendo i propri proget­ti educativi. Perché un uomo è davvero molto più che un semplice cittadino.





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