«Delegittimare la scuola vuol dire spaccare l’Italia»
Data: Giovedì, 10 marzo 2011 ore 16:00:00 CET Argomento: Rassegna stampa
La
scuola maltrattata, la scuola offesa, la scuola tagliata. Eppure c’è
anche la scuola nell’unità di Italia, l’Unità che non tutti vorrebbero
celebrare in questi giorni. C’è la scuola assieme, ovviamente, ad altre
“voci”: guerre, chiesa, fabbriche, politica, trasporti, comunicazioni
di massa, mafie… Voci, che sono altri passaggi, nel bene o nel male, di
un cammino contrastato e contradditorio verso l’unità e soprattutto
nella costruzione di una identità comune, voci che diventano “isole
tematiche” nella mostra “Fare gli Italiani. 150 anni di storia
nazionale”, dal 17 marzo a Torino, alle Officine grandi riparazioni di
via Castelfidardo 22, quattordicimila metri quadri di installazioni.
«Ciascuna voce – spiega Giovanni De Luna, storico e curatore insieme
con Walter Barberis – abbiamo cercato di interpretarla e di
rappresentarla alla luce della coppia inclusione-esclusione. Alcuni
esempi.
La fabbrica è stata una straordinaria occasione di inclusione,
perché nella fabbrica si sono incontrati migliaia di italiani, di
diverse regioni, di diversi dialetti, di diversi costumi, che davanti
alla loro condizione di lavoratori hanno maturato un comune sentire e
un comune modo per esprimerlo. Le mafie hanno generato l’effetto
opposto, separando e quindi escludendo una parte della popolazione».
Professor De Luna, in questo percorso si immagina un ruolo
straordinario della scuola: a scuola si impara la lingua di tutti e si
dovrebbe costruire un sistema di valori condivisi. È ancora così?
«Quello è stato e continua ad essere il ruolo della scuola pubblica in
Italia. Un ruolo, appunto, straordinario. Con varianti, ovviamente. Il
percorso non è mai stato lineare. Se guardiamo al presente, la crisi è
evidente, ma il compito resta fondamentale. Se gli immigrati e i loro
figli diventano cittadini italiani sarà per il lavoro,ma sarà allo
stesso modo per la scuola: sui banchi delle elementari crescono nuove
schiere di italiani e crescono grazie all’impegno a volte strenuo di
migliaia di maestri. Quando ci si riferisce alla scuola pubblica questo
si dovrebbe in primo luogo riconoscere: la scuola in prima linea sul
fronte dell’inclusione. Che cosa sarebbe altrimenti? Dove altrimenti si
costruirebbe una comunità, capace di riconoscersi in una identità.
Certo tutto è difficile, le strutture scolastiche sono malandate, gli
insegnanti sono sfiduciati, c’è un deficit intellettuale, i contenuti
stessi possono apparire obsoleti, mal’attacco anche da parte della
politica è stato continuo. La scuola non trova schierato al fianco un
governo. Ne incontra uno che tenta di delegittimarla». Non è solo la
politica. C’è anche una società con i suoi modelli culturali che
“sfiducia” la scuola… «Nel senso che la scuola deve sopportare il
contrasto, la concorrenza di forme comunicative più efficaci, altri
circuiti di trasmissione dei saperi, altri saperi. Del resto viviamo in
una condizione di emergenza culturale, non solo politica». Forse più
culturale che politica, se si interpretano i “saperi” che può affidarci
la televisione, da Amici al Grande Fratello? «Questo fa parte di una
deriva, cui partecipa anche la scuola. Ma per la scuola non c’è niente
di nuovo. La scuola ha subito periodici attacchi. La scuola ha vissuto
e vive di alti e bassi. All’Unità d’Italia, ad esempio, venne promossa,
ma in un paese afflitto dall’analfabetismo non venne favorita
l’istruzione elementare, bensì quella intermedia, perché in primo luogo
si voleva addestrare un ceto amministrativo e tecnico, utile al nuovo
stato. Poi venne il momento della scuola elementare. Il fascismo
condizionò la funzione inclusiva, che tornò alta ai tempi del
centrosinistra, ai tempi di Tristano Codignola…. Che fu alla guida
della politica scolastica nel Psi di Nenni e che fu tra i più
battaglieri sul fronte della istituzione della scuola media unica e
della stessa scuola materna statale. «Oggi siamo al tentativo ripetuto
di delegittimare la scuola…» Berlusconi dice infatti che la scuola
pubblica non educa. Ma gli attacchi sono pure altri, la Lega in prima
fila, in modo talvolta ambiguo. Quanto vale il dialetto rispetto
aunprogetto inclusivo della scuola? «Continuo a ritenere che avesse
ragione Pasolini: il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte,
in un circuito virtuoso. Il problema non è aprire la scuola a una
dimensione del locale. Anzi, questa apertura può costituire un momento
didattico molto serio, un avvicinamento molto concreto alla realtà,
un’esperienza di lettura della realtà e di confronto. Il problema è
costruire attorno una cornice molto robusta dal punto di vista
concettuale, che comunichi appartenenza». Come fecero i piemontesi un
secolo e mezzo fa? «Allora lo stato procedette estendendo in modo
burocratico amministrativo il modello piemontese. Ma non si può
demonizzare questa scelta, che ci diede un sillabario unico, ma anche
una lingua per parlarsi da nord a sud e un sistema di valori. In quel
modo si formò un’idea di cittadinanza. I nostri sussidiari saranno
stati retorici, ma accompagnarono questo paese verso il benessere,
facendoci capire di partecipare tutti alla stessa impresa». Una scuola
federale ha una ragione? «La scuola federale mi sembra una
stupidaggine, che pretende chi, come la Lega di Bossi, ha la sua idea
di cittadinanza, inaccettabile peraltro: una cittadinanza che accantona
i valori e si fonda sugli interessi ». (da L'Unità)
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