La tecnologia non cambia la nostra vita, cambia noi. Ma oggi siamo più o meno soli?
Data: Mercoledì, 09 marzo 2011 ore 18:00:00 CET Argomento: Rassegna stampa
Capita di
incontrarsi a cena e parlare del post scritto su Facebook da un amico,
«chissà che fine ha fatto, è un po' che non lo vedo». Oppure prestare
più attenzione al telefono che alla compagna, e allora sono guai. Ci si
può riconoscere o meno, ma la tesi sostenuta da Sherry Turkle nel suo
"Alone Together" è assolutamente contemporanea, anche se trae le sue
origine da un libro scritto dalla stessa autrice nel 1984 ("The Second
Self").
L'informatica si faceva strada accompagnata dalla promessa di
semplificarci la vita, permettendoci di fare più cose e in maniera più
veloce. La Turkle, docente al Massachusetts Institute of Technology e
psicologa clinica, cercò di ribaltare la prospettiva: il personal
computer non avrebbe fatto qualcosa per noi, ma avrebbe fatto qualcosa
a noi. «La questione non era come sarebbero stati i pc in futuro, ma
piuttosto come saremmo diventati noi»,
scriveva.
Più di 25 anni dopo l'autrice ha provato a rispondere alla domanda e
quando ha notato l'attenzione compulsiva della sua bambinaia per il
BlackBerry (temeva di bussare alla porta prima di aver avvertito con un
arido sms) ha concluso che sì, siamo cambiati.
Gli aneddoti raccontati dalla Turkle - del suo libro parla, tra gli
altri, Businessweek - fanno sorridere e fare qualche sospiro sospeso
tra identificazione e preoccupazione. Oggi gli smartphone, tablet e pc
non solo conservano la nostra memoria (numeri di telefono, compleanni,
indirizzi, appuntamenti) ma anche le nostre emozioni e identità. Per
gli smanettoni - che non hanno più brufoli e occhiali spessi - sono
porte di accesso a una miriade di identità digitali. E allora succedono
fenomeni curiosi. I piani si scombinano, la distanza fisica viene
svuotata di significato al punto che rispondere al tweet o alla mail
può sembrare più urgente dell'ansia di socialità del proprio
interlocutore.
Secondo il magazine americano il 27% degli utenti di Facebook sono
dipendenti al punto da postare o leggere gli status altrui anche quando
sono in bagno. Si potrebbe obiettare che non è un luogo di grande
concentrazione, e che leggere una rivista non per forza è un'attività
più nobile. Il dibattito è nascosto dietro ogni riga di "Alone
Together". Insomma, siamo più soli oggi o ieri?
La bibliografia, per il genere, ormai è ricca. Uno dei saggi più
dibattuti è «Google ci rende stupidi?» scritto tre anni fa su The
Atlantic da Nicholas Carr, che oggi ha dedicato alla sua tesi un libro:
«The Shallows: What the Internet Is Doing to Our Brains». Di tutt'altro
avviso Derrick de Kerckhove e il suo recente «La mente accresciuta»,
distribuito in formato ebook.
Il nodo della questione, secondo la Turkle, è che «le nuove tecnologie
ci consentono di sospendere i contatti umani». Gli spazi pubblici sono
diventati privati, al punto che una coppia si può trovare a cena
parlando più con il proprio iPhone che con il partner. La Turkle non
propone di tornare al 1984, ma di cercare di "salvarci" dal mondo
digitale.
Ci ha provato, circa un anno fa, il giornalista A.J. Jacobs. Nella sua
ultima fatica, "My life as an experiment", ha cercato si sospendere il
multitasking compulsivo cercando di fare una cosa alla volta. Dopo un
mese di tentativi è riuscito a chiudere il BlackBerry nell'armadio,
ammettendo di aver recuperato «il controllo del timone» del suo
cervello. Oggi sarà ancora lì? (da IlSole24Ore)
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