Ma davvero è tutta colpa di Rodari e Don Milani?
Data: Domenica, 06 marzo 2011 ore 14:25:41 CET Argomento: Rassegna stampa
«Don Milani,
che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano
Vassalli. L'ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d'esser stato
insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul
giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in
pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una
professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and
Company. Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro
improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella
"Lettera" di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e
mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata
falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli
garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare
il livello della scuola dell'obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a
creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben
più ideologici (in senso contestativo) che
scolastici».
Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul
Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola
italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni
Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la
capacità di studiare». L'illustre accademico fonda la propria sentenza
nell'ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda:
«Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che
recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura
radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia
«compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di
don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio,
autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il
babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza»
sino a frenare l'aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai
«lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in
loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche
economico».
Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva
la trasformazione dell'insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba
sulla razionalità e sulla storia. L'aula scolastica si trasformava in
palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio,
mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che
entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire
all'internazionale dell'ignoranza». E qui chi abbia anche soltanto un
minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno
fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o
dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di
così alta responsabilità sociale quale l'insegnamento, non possano
leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse,
anche contradditorie realtà dell'esistenza fuori dall'aula in cui
lavorano? Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che
cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di
cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi,
Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s'incarnano quelle «tendenze già
in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema
educativo e che nel '92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».
Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi
brevi: «La scuola - spiega Milani nella "Lettera ai giudici" - siede
fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l'arte
delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare
il loro senso della legalità, dall'altro la volontà di leggi migliori
cioè il loro senso politico». E Rodari, recensendo "Lettera a una
professoressa" quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa
intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in
tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte
brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro
che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo
tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini
politici». Mi torna alla mente, a questo punto, l'immagine suggeritami
19 anni fa dell'accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del
famoso quadro di Bruegel che tenendosi per mano finiscono insieme nel
precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino
s'allunga in un bunga-bunga pedagogico! (da Il Manifesto di
Giorgio Pecorini)
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