Donne, fra 8 marzo e 150^: ''La rimettiamo al mondo noi l'Italia''
Data: Domenica, 06 marzo 2011 ore 11:00:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


Che cosa succede quando l'anniversario dell'Unità d'Italia incontra le donne? Che cosa succede quando le donne decidono di riprendersi il Risorgimento, di scendere in piazza e dire 'la rimettiamo al mondo noi l'Italia'? Succede che 150 anni di storia si ritrovano in un giorno, che non è il 17 marzo, nascita dell'Italia unita, ma l'8 marzo, data simbolo che quest'anno per molte sarà il proseguimento di quel 'Se non ora quando' che il 13 febbraio scorso ha visto la piazza (in tante città italiane) riempirsi di un milione di donne (e di uomini). Succede che 150 anni di narrazioni sul ruolo delle donne nella vita del Paese diventano autonarrazione delle donne sul loro ruolo nella società italiana.                                 
 Con un compito, che è anche l'appello della manifestazione: 'Rimettiamo al mondo l'Italia'. Già, perché non è la prima volta. Del resto si dice madrepatria, la parola nazione si declina al femminile, Italia è un nome di donna. Da dove viene e dove conduce una identificazione così forte? Certo è che non sono state le donne a sceglierla, così come non sono loro a decidere oggi di raccontarsi come spesso fanno i mezzi di comunicazione.
Ma tra la retorica della donna prevalente (anche) nel Risorgimento e l'immagine femminile che riempie i rotocalchi mai come in questo 2011, c'è la narrazione che le donne in 150 anni hanno fatto della differenza di genere. Una narrazione di cui questo 8 marzo rappresenta l'ultimo capitolo. Non per tutte scritto bene.
Nadia Urbinati, Ida Dominijanni, Olivia Guaraldo e Maria Serena Sapegno spiegano all'agenzia di stampa Dire che cosa c'è dietro l'immaginario italiano del genere femminile e che cosa vuol dire (nel bene e nel male) scendere in piazza martedì prossimo per riprendersi il Risorgimento e rimettere al mondo l'Italia.
Nadia Urbinati - Professoressa di Scienze politiche alla Columbia university di New York, è autrice di diversi saggi tra cui il recente 'Liberi e uguali. Contro l'ideologia individualista' edito da Laterza
"Non è dal Risorgimento che parte quell'immaginario secondo cui la donna è solo madre da proteggere, ma può essere anche prostituta da desiderare e condannare; donna che non merita di far parte della vita politica e sociale del Paese. In Italia la matrice etica di questa visione femminile è nel cattolicesimo, in una storia molto più vecchia quindi. Non dobbiamo dimenticare che il Risorgimento è stato prima di tutto laico. I democratici come Mazzini includevano le donne a pieno titolo nella cittadinanza. I liberali non le inclusero, tuttavia i loro argomenti erano morali, propri del loro retaggio cattolico; ma politicamente la loro posizione era indifendibile poiché una volta accettato il principio del consenso come base di legittimità del governo (il sistema rappresentativo), l'esclusione delle donne dal voto presentava una contraddizione facile da confutare, come infatti avvenne.
La narrazione delle donne cambia radicalmente con la conquista antifascista e democratica del diritto di voto: da quel momento la donna acquisisce libertà individuale a trecentosessanta gradi - le grandi vittorie degli anni Sessanta e Settanta ne sono un esito conseguente, scritto nella nostra Costituzione. Tuttavia, non confondiamo i diritti legali e politici con il rispetto morale e il riconoscimento: benché gli uni e gli altri siano teoricamente correlati, la loro relazione sociale e storica é più complessa. Ancora oggi il ruolo delle donne deve fare i conti con un'educazione dei sentimenti e una cultura etica profondamente imbevuta di valori cattolici, che assegnano alla donna una posizione cruciale nella sfera della famiglia, ma non in quella socio-politica.
In questo senso le manifestazioni delle donne - quella del 13 febbraio e quella in programma per l'8 marzo - possono essere importanti, perché si tratta di manifestazioni che toccano il mondo dei valori, che contestano un modello di donna (madre-prostituta) che in questi ultimi anni ha conosciuto una straordinaria rinascita pubblicitaria. Quelle date sono importanti segni dell'esigenza di recuperare un punto di vista femminile differente, che faccia della libertà un segno distintivo di emancipazione morale e rispetto, non di manipolazione e corruzione. Ma non basta. Perché in Italia la situazione è grave, sordida, e in più affaticata da una cultura diffusa che resiste alla critica radicale dei costumi. È da qualche generazione ormai che le donne hanno in mano il loro destino politico, e sarebbe il caso che tirassero fuori gli artigli per mostrarlo e dichiarare la loro volontà di prendere in mano anche il loro destino sociale e morale: di pretendere rispetto e volere autonomia, una carriera costruita senza bisogno di vendere il proprio corpo. Una manifestazione è un'esperienza esistenziale importante, ma c'é il rischio che il giorno dopo tutto rimanga uguale a prima. Occorre qualcos'altro: che cosa fanno le donne in Parlamento? Non dovrebbero sentire il peso del loro ruolo? Il premier ha costruito il suo potere anche grazie a molte di loro, che ancora oggi gli sono fedelissime. Se questa rivolta di tipo etico (non moralistico, come ci vogliono far credere i corifei del premier), di affermazione della dignità delle nostre istituzioni, e quindi nostra come cittadine, penetrasse oltre l'opposizione politica e diventasse anche opposizione etica, allora sarebbe possibile avere un Parlamento meno corrotto, meno sordido. Invece questo non avviene, perché i modelli che noi abbiamo introiettato dopo trent'anni di tv spazzatura sono quelli di donne possibilmente prostitute, sempre madri, qualche volte colleghe, spesso adoranti, a volte subdole, ma comunque sempre in una posizione subordinata, mai autonome e libere".
Ida Dominijanni - Editorialista de 'il manifesto', ha curato per Franco Angeli il volume 'Motivi della libertà'. Collabora con il corso di laurea in Filosofia dell'università di Roma Tre e con la comunità femminile Diotima dell'università di Verona
"Mi pare che dietro le quinte della manifestazione del 13 e delle celebrazioni del 150^ dell'Unità d'Italia si stia giocando un conflitto non dichiarato sulla figura della madre. Se si richiama l'immaginario che identifica la donna con la nazione, l'ideale onnipotente della donna che può far 'rinascere' l'Italia, il rischio è di ritornare alla figura tradizionale della madre garante dell'ordine patriarcale, così come etimologicamente suggerisce la parola madrepatria: madre del padre. E' una mossa inversa rispetto a quella del femminismo della differenza, che ha ridisegnato la figura della madre come autorizzatrice di libertà femminile, in conflitto con l'ordine patriarcale.
La differenza fra queste due versioni della figura materna è sottile ma decisiva: la prima ristabilizza l'ordine socio-simbolico che la seconda destabilizza. Per capirlo, proviamo a guardare la situazione dalla parte degli uomini. A me pare evidente che il Berlusconi-gate, mettendo in scena l'estrema miseria di un certo modello di virilità, colpisca la dignità degli uomini prima che quella delle donne, e dovrebbe costringerli a mettersi di fronte alle proprie responsabilità e complicità rispetto a quel modello. Alcuni cominciano meritoriamente a farlo, ma molti preferiscono saltare il problema e scendere in piazza come accompagnatori e paladini delle donne, le quali a loro volta li accolgono maternamente. Le piazze del 13 febbraio erano piene di istanze diverse, e certamente c'era l'esigenza positiva di far sentire una forza femminile collettiva; ma io ho avvertito il timbro prevalente di una potenza materna tradizionale e rassicurante, una potenza tanto grande da rimettere al mondo l'Italia. È il paradigma della donna brava, che lavora, mette al mondo dei figli e salva la comunità in pericolo, contrapposto alle presenze perturbanti delle 'donne permale' che circondano il Sultano.
Questa contrapposizione rassicura certamente gli uomini, che da sempre dividono le donne in madri e puttane: ma serve a noi donne? Io credo di no. Non solo perché il femminismo lotta da sempre contro questa contrapposizione. Ma anche perché non credo che possiamo liquidare con un giudizio morale queste 'donne permale', che sono invece degli indicatori preziosi per un'analisi seria del Berlusconi-gate. Che a sua volta non si può ridurre a un insieme di comportamenti immorali o poco decorosi. Proprio se analizziamo le vite e le parole della 'ragazze permale', vediamo che dietro l'immagne della donna-oggetto c'è la pervasità della forma di merce, c'è la tragedia di un precariato che porta i corpi al mercato del sesso, c'è il potere di un post-fordismo selvaggio e di un bio-capitalismo spietato, c'è il disincanto di una generazione di giovani donne che non possono permettersi di fare le brave madri. Di tutto questo non ho mai sentito parlare le donne che vogliono rimettere al mondo l'Italia. Ma senza parlare di tutto questo e senza combattere contro tutto questo, non c'è nessuna possibilità di rimetterla al mondo".
Olivia Guaraldo - Professore aggregato di Filosofia politica all'università di Verona, è fra gli autori di 'Filosofia di Berlusconi' edito da Ombre corte
"L'idea della nazione implica una sorta di comunanza, di condivisione. E non è un caso che spesso le immagini della nazione siano femminili, come la madrepatria. Ma il rischio è quello di strumentalizzare il femminile per un riconoscimento quasi carnale all'interno della nazione. Detto questo, la mobilitazione delle donne può essere letta come una presa di coscienza della necessità di un nuovo Risorgimento per l'Italia. Sono d'accordo nel dire 'se non ora quando' perché se c'è un momento in cui bisogna scendere in piazza è proprio questo, anche se i toni usati per convocare la manifestazione del 13 febbraio erano troppo tradizionali: dire 'la dignità delle donne è la dignità della nazione' significa mettere in campo un'equivalenza che appunto può essere strumentale, perché le donne vengono prese e usate quando c'è bisogno di rafforzare la nazione. Ma proprio per questo, rievocare un'immagine come quella che suggerisce l'appello 'Rimettiamo al mondo l'Italia' può voler dire per le donne riappropriarsi di un simbolico femminile che è sempre stato decretato da altri. Si è visto durante la manifestazione del 13 febbraio, che ha dato a tante la possibilità di esprimere un disagio, ognuna in modo individuale. L'autonarrazione di molte di quelle donne è proprio questa: 'Ci sentiamo simbolicamente non rappresentate in questo Paese, ci sentiamo simbolicamente travisate nell'immagine che nei media compare delle donne'. Questo momento di mobilitazione può davvero avere un impatto sulla società nella sua interezza perché sono le donne a sottrarsi a un'immagine che è stata buttata loro addosso da altri, sia in passato, come donna simbolo della nazione, sia ora, con l'immagine della donna liberata parodiata nei programmi televisivi in cui le donne stanno lì a sedurre gli uomini e allora sono liberate.
In questo senso, il Risorgimento evocato oggi potrebbe essere la necessità di mettere in discussione questi modelli che non sono slegati da un modo di intendere la politica, nel senso alto del termine. Significa far capire alla società che non ci può essere una democrazia compiuta senza le donne considerate non come cosa accessoria (per cui 'i diritti li diamo anche alle donne'). Una democrazia compiuta al cui centro ci deve essere l'autodeterminazione femminile e la libertà femminile. Ma per rimettere al mondo l'Italia è necessario coalizzare diversi soggetti: non solo ed esclusivamente le donne, ma tutte le persone che non si riconoscono in questo Paese".
Maria Serena Sapegno - Professoressa di Letteratura italiana all'università di Roma La Sapienza, fa parte del comitato 'Se non ora quando?'
'"Rimettiamo al mondo l'Italia', perché in piena celebrazione dei 150 anni dell'unità, bisogna dire che questa Italia è stata fatta un po' male. A partire dalla narrazione della nazione che ha la meglio nel Risorgimento, identificata con una donna violentata, brutalizzata e bisognosa che i suoi figli la liberassero dall'oppressore. E se da un lato questa lettura femminile ha un ruolo unificante, perché gli italiani sono uniti dal fatto di essere figli, dall'altro questa immagine, con i rischi razzisti che comporta evocare il sangue, implica sempre che qualcuno è dentro e qualcuno è fuori. Ma non solo. Perché le donne, durante il Risorgimento così come negli anni successivi, diventano madri dei patrioti, e sulla base di questo chiedono una cittadinanza: 'Perché siamo madri', questa è la coscienza del tempo. Poi arriva il primo femminismo suffragista, la partecipazione alla Resistenza e il diritto di voto, premio per il loro contributo. Ma non basta. Le cose cambiano completamente con il movimento delle donne. Un'operazione veramente rivoluzionaria, perché le donne per la prima volta si pongono come soggetto autonomo, a cui però - e questa è la nostra analisi -non seguono sufficienti misure: la società civile italiana non è in grado di recepire fino in fondo la portata di questo cambiamento. Non solo, c'è addirittura un ritorno indietro. Ancora oggi fare figli è un fatto privato: 'Sono fatti tuoi, lo fai e non lavori, o comunque non fai carriera'. L'obiettivo di questa mobilitazione allora è ricominciare, e riaprire una grande stagione che sia il più possibile unitaria, trasversale, di tutte le donne. Anche coinvolgendo gli uomini che siano interessati. Ma questa è e deve rimanere una battaglia di genere, devono essere le donne a guidarla.
Questo 8 marzo significa portare avanti il clima di unità e di trasversalità della manifestazione del 13 febbraio, che ha mostrato la forza e le potenzialità infinite del movimento: 'Ma allora possiamo'. Dire 'rimettiamo al mondo l'Italia' è un fatto simbolico, perché bisogna proprio cambiarla l'Italia, e devono cambiarla le donne. Serve una nascita simbolica di un'altra Italia. Vuol dire questo, non 'siamo tutte madri'. Non vuol dire siamo di nuovo costrette in quel ruolo, ma che l'Italia ha bisogno che anche le donne la producano, perché fino ad ora non è stato così. E poi c'è questo gioco verbale sul mondo: a causa di questa cultura orrenda tutto il mondo ride di noi. Ma se le donne possono raccontarla in un mondo diverso, allora l'Italia si riapre al mondo. Oggi, dopo 150 anni, la rifacciamo noi, perché c'è bisogno di una nazione più giusta e più egualitaria per tutti".  (a cura di Nicoletta Di Placido da www.dire.it)






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