Latinisti a zonzo? Meglio pasticcieri, purché educati...
Data: Sabato, 05 marzo 2011 ore 16:25:00 CET Argomento: Rassegna stampa
Perché il nostro
paese continua a pagare lo scotto di un’alta dispersione scolastica e,
peggio ancora, di oltre 2 milioni e 200mila giovani fra i 15 e i 20
anni definiti “neet” (Not in Education, in Employment or in Training),
numero più alto che altrove in Europa? Cosa si può fare?
Per tentare una risposta, vorrei provare a inserirmi per un momento nel
serrato dibattito che in questi giorni si è svolto sulle pagine dei
giornali intorno al provocatorio libro di Paola Mastrocola: Togliamo il
disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare. L’autrice, con la
passione e la competenza che le sono proprie, punta il dito contro
l’attuale sistema scolastico, mostrando “come e perché lo studio sia
compromesso e svuotato”, anche a causa di una ideologia del “successo
formativo” che in realtà ha appiattito verso il basso i livelli di
apprendimento e ha affermato una nuova pedagogia, che predilige “la
scuola del fare, del saper essere, del saper stare (insieme), dello
smanettamento collettivo e dell`invasamento tecnologico, non certo la
scuola del sapere, delle nozioni (intese come conoscenze), della
letteratura e dello studio astratto,
teoretico”.
Ma non basta: con altrettanta provocatoria acutezza, la
Mastrocola - raccontando il dialogo avuto con un ottimo fabbro,
avvilito per la mancanza di apprendisti/”eredi”- rivendica per i
ragazzi “la libertà di non studiare”: “La mia personale preghiera ai
giovani è che si riprendano la libertà di scegliere se studiare o no,
sovvertendo tutti gli insopportabili luoghi comuni che da almeno
quarant’anni ci governano e ci opprimono”. È davvero indispensabile, si
chiede, che tanti nostri giovani continuino ad andare a scuola per anni
e anni senza averne l’interesse, o peggio ancora l’attitudine?
Ho avuto l’occasione, nelle settimane scorse, di fare orientamento per
l’iscrizione alle superiori in alcune classi di terza media, e con mio
grande rammarico ho potuto constatare che fra i nostri ragazzi è
diffusissima l’idea che chi si iscrive ad un liceo è intelligente, chi
si iscrive alla formazione professionale non lo è affatto, mentre chi
si orienta su studi tecnici o addirittura professionali è un mediocre,
portato solo per un aspetto particolare... Insomma, un’idea di
intelligenza a senso unico. Ma chi gliel’ha comunicata?
Che l’intelligenza possa esprimersi attraverso molteplici strade e
modalità, e che tutto sommato possa essere altrettanto utile al mondo -
e dignitoso per la persona - diventare un bravo artigiano o un
avvocato, è un concetto ad essi totalmente estraneo. È probabilmente
questa la ragione (i dati di questi giorni relativi alle iscrizioni lo
confermano) per cui i licei si “gonfiano” sempre più, mentre i tecnici
e i professionali stentano, nonostante le pressioni del Miur, delle
associazioni di categoria e le nuove possibilità introdotte da alcuni
decreti, in particolare quelli che hanno istituito i percorsi di IeFP
(istruzione e formazione professionale). È questa la ragione, inoltre,
per cui assistiamo nelle superiori al 12% di abbandoni a conclusione
del primo anno senza iscrizione all’anno successivo, con un ulteriore
3,4% alla fine del secondo anno...
In sintesi, paghiamo il dazio ad una concezione intellettualistica
dell’educazione e della cultura che considera il lavoro manuale - per
intenderci quello che ha reso grande l’Italia nel mondo, con le sue
piccole e medie imprese artigiane - una forma di subalternità culturale
e di arretratezza sociale. È una concezione, questa, che ha avuto la
sua investitura ufficiale con l’istituzione della scuola media unica
(L.1859/62), che abolì le scuole di avviamento professionale in nome di
una pretesa uguaglianza di classe e di opportunità per tutti, senza
tenere conto che, come diceva Aristotele, “non c’è ingiustizia più
grande del rendere uguali cose che sono diseguali” ...Non è forse più
ragionevole, poiché tanti giovani imparano meglio dedicandosi ad
attività pratiche, offrire loro la possibilità di percorsi idonei a
sviluppare talenti e attitudini diverse, magari introducendoli
progressivamente al lavoro?
Nei giorni scorsi, sempre nell’ambito del già citato dibattito, è
apparso un articolo di Ferdinando Camon su Avvenire (“Non studiare non
va bene”, 23 febbraio 2011) che, riportando il dialogo avuto con un
“ottimo” posatore (felice perché “arrivato” ed economicamente appagato,
ma disinteressato a tutto quanto accadeva intorno a lui) rispondeva
così alla mia domanda (e alla Mastrocola): «non si può vivere senza
interrogarsi sulla vita, non si può stare in una società senza sapere
come funziona, non si può vedere un film come se fosse un fumetto: non
è questione di “tenore” di vita, ma di “qualità” della vita. Per questo
serve la cultura, cioè lo studio. Lo studio sta al vivente come la
medicina al malato».
Ha ragione Camon, è in gioco la “qualità della vita”; questa però -
aggiungo io - non dipende semplicemente dall’istruzione, non è
determinata dal sapere tante cose. Non è lo studio che apre la mente,
così come non è il lavoro che la chiude; non c’è automatismo che dia
garanzie, in questo senso. La medicina, per il malato che è l’uomo, non
è l’istruzione - e nemmeno il lavoro - ma l’educazione, e questa non è
assicurata semplicemente dall’andare a scuola. Perché è l’educazione
ciò che fa emergere le domande dell’uomo e il suo “naturale” interesse
per la realtà tutta intera, attraverso la proposta di una ipotesi di
senso e l’offerta degli strumenti con cui verificarla. Quanti nostri
vecchi, pur privi di qualsiasi istruzione ma educati dall’appartenenza
alla grande tradizione cristiana, avevano una saggezza, una curiosità e
una capacità di comprensione a 360° della realtà che, oggi, per gran
parte delle persone è del tutto sconosciuta!
Quello che apre o chiude la mente dell’uomo, dunque, non è il lavorare
o lo studiare, ma lo scopo per cui si fanno queste cose, come dimostra
bene una lettura attenta proprio dell’esempio portato da Camon. Quando
infatti l’orizzonte di significato entro cui questi aspetti sono
collocati è meschino (come per il posatore, che guardava solo al
proprio benessere materiale, al non avere problemi...), allora la mente
si chiude; ma quando è grande, come accade, per esempio, in certi CFP
originati da importanti carismi educativi (realtà che possono vantare
un successo formativo in termini di occupazione o di rientro nel
sistema scolastico superiore al 60%) (1), allora è possibile assistere
alla rinascita di giovani espulsi dal sistema scolastico che sembravano
destinati ad una vita di fallimenti. Giovani che, grazie ad adulti
appassionati al loro destino, frequentando dei percorsi di formazione
professionale (panificatori, ristoratori, acconciatori, pasticceri,
etc.), rialzano il capo, iniziano a guardarsi intorno e ad interessarsi
alla realtà tutta intera, desiderano diventare imprenditori e
partecipano persino a concorsi di poesia... vincendoli!
Tornando, dunque, alla domanda da cui siamo partiti, dovrebbe apparire
ora più chiaramente qual è la sfida che ci attende: non solo riproporre
- come propone la Mastrocola - una scuola dei contenuti che rimetta lo
studio al centro dell’insegnamento, oppure una maggiore possibilità di
accedere a percorsi di formazione lavoro, obiettivi entrambi
auspicabili; ciò che è necessario, soprattutto, è puntare
sull’educazione, favorendone la libera intrapresa per consentire ad
adulti appassionati di fare ai giovani proposte “alte” e interessanti;
perché i “neet” e i ragazzi “dispersi” sono il frutto, innanzitutto, di
una società di adulti che non ha più passione per nulla, e che in nome
del comodo e di insensate ideologie ha rinunciato a educare e a far
crescere i propri figli.
(1) Questo tipo di percorso formativo si è rapidamente sviluppato dal
2003, passando dai 1.329 percorsi con 23.562 alunni nel 2003/2004 ai
7.642 percorsi frequentati da 150.489 alunni nel 2008/2009, con il
numero degli allievi cresciuto di 5 volte in sei anni, anche se con
grandi differenze da una regione all’altra: Piemonte, Lombardia,
Trentino e Veneto hanno maggiormente investito in questo segmento, le
regioni del Centro e del Sud assai meno. Ed è proprio nelle regioni del
Mezzogiorno che si registrano le più alte percentuali di dispersione
scolastica e di disoccupazione giovanile (dati Isfol).
(di Marco Lepore da Il Sussidiario)
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