“Sono un deficiente”, prof condannata. Alunno costretto a scriverlo 100 volte: in primo grado era stata assolta
Data: Giovedì, 17 febbraio 2011 ore 09:50:38 CET Argomento: Rassegna stampa
È una donna piccola,
minuta e molto determinata: Giuseppa Valido, 59 anni, insegnante oggi
in pensione, a gennaio 2006 fece scrivere a un alunno che riteneva un
bullo, per cento volte, «sono deficiente» sul quaderno. Una lezione di
vita, la riteneva la prof. Ieri, però, i giudici di Palermo le hanno
inflitto una controlezione mica da ridere: un anno di carcere per abuso
dei mezzi di
correzione.
L'imputata non andrà in cella, perché ci sono la sospensione della pena
e il condono, ma per la difesa è una mazzata. Il Gup Piergiorgio
Morosini, che aveva deciso col rito abbreviato il 27 giugno 2007, aveva
infatti assolto l'imputata, ma il pm Ambrogio Cartosio aveva fatto
ricorso, assieme alla parte civile, rappresentata dall'avvocato Mario
Volante. Nel giudizio di secondo grado, durato tre anni, il procuratore
generale Antonio Osnato aveva chiesto 14 giorni di carcere: una pena
poco più che simbolica. Ieri, la terza sezione della Corte d'appello,
presieduta da Gaetano La Barbera, è andata ben oltre le richieste
dell'accusa. «Giustizia non è fatta», afferma l'avvocato Sergio
Visconti, che preannuncia il ricorso in Cassazione. Di tutt'altro
avviso il padre del ragazzino (oggi sedicenne) costretto a darsi per
cento volte del deficiente, anzi del «deficente», perché ci aveva messo
una «i» in meno. «Aveva solo undici anni, quando avvennero i fatti»,
dice Vincenzo C.
La storia aveva avuto un antefatto con la bravata che, alla fine di
gennaio 2006, il ragazzino e altri due coetanei, avevano fatto ai danni
di un compagnetto di classe, la prima media della scuola media Boccone,
nella zona del Policlinico di Palermo: gli avevano cioè impedito di
entrare nel gabinetto dei maschi, «perché sei una femminuccia, un gay».
La questione era venuta fuori in classe, di fronte alle lacrime della
vittima. La professoressa di Lettere, Giuseppa Valido, aveva deciso di
affrontare la situazione in maniera energica: uno di coloro che avevano
offeso il ragazzino aveva chiesto scusa, mentre il presunto bullo non
ne aveva voluto sapere. Era così scattata la dura punizione: l'alunno
discolo era stato costretto a darsi del deficiente per cento volte sul
quaderno e poi aveva dovuto portare il quaderno al papà perché lo
firmasse e dimostrasse di averne preso consapevolezza.
Vincenzo C., imprenditore nel settore delle demolizioni di auto, aveva
risposto per le rime, dando della «c…» alla professoressa. Aveva fatto
visitare il ragazzino, che aveva risentito dello choc, e gli psicologi
dell'azienda sanitaria avevano segnalato il fatto alla direzione della
scuola e alla Procura..
Il giudice Piergiorgio Morosini aveva assolto l'imputata. Nella
motivazione della sentenza aveva sostenuto che la professoressa non
fuggì dalle proprie responsabilità. Da stigmatizzare sarebbe stato
piuttosto il comportamento del ragazzino: «Il non intervenire - aveva
scritto il giudice - avrebbe finito per accreditare, tra i compagni di
classe, l'idea che condotte vessatorie a danno dei più deboli sarebbero
state comunque accettate».
Educare reprimendo? La Procura aveva ribattuto che quel comportamento
era un abuso, consistito nell'incutere terrore, più che timore: perché
in fondo, di fronte a sé l'insegnante aveva non un maggiorenne ma un
ragazzino, un preadolescente, che difficilmente è capace di rendersi
conto dei propri errori. E poi, dopo che il caso era scoppiato, la
Valido avrebbe anche cercato di farsi supportare dalle testimonianze
degli altri alunni, che avevano detto che il presunto bullo non era
stato traumatizzato. Ma quell'atteggiamento, che per il Gup era
occasione di riflessione collettiva e «conforto alla tesi di un uso non
sproporzionato del potere di intervento pedagogico-disciplinare sul
minore», non è stato ritenuto affatto edificante dalla Corte d'appello
(da La Stampa di Riccardo Arena)
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