Imparare a memoria salva i giovani dal labirinto del nichilismo
Data: Mercoledì, 02 febbraio 2011 ore 15:08:42 CET
Argomento: Rassegna stampa


La disaffezione nei confronti della memoria identifica lo spirito di un’epoca che, abdicando al proprio destino, ha eletto il divertimento, cioè la distrazione, a stile di vita collettivo. Ci si potrebbe chiedere, perciò, se ancora convenga percorrere la strada opposta, almeno in talune circostanze. A scuola, per esempio.
Che a scuola ci si possa divertire, è un fatto, da cui, tuttavia, non è lecito desumere che tale sia - della scuola - la funzione primaria. La scuola serve infatti a educare, ossia a trasmettere una grammatica - un repertorio di conoscenze stabili, principi oggettivi, criteri di giudizio universali -, che permetta, poi, di riconoscere le evenienze della vita, dando loro un nome, e un valore. Il valore della memoria consiste, da questo angolo d’osservazione, nella memoria dei valori: nella progressiva presa di coscienza di quei paradigmi e canoni (evidenze ed esigenze) che definiscono la natura originale dell’uomo, e quindi rendono possibile un ethos condiviso.
Ci siamo abituati invece a delegare l’esercizio della memoria prima ai dizionari, alle enciclopedie, ai manuali, poi - sempre più - ai dispostivi elettronici, tanto capienti ed efficaci. Perché dedicare tempo ed energie per ricordare ciò che può essere archiviato in un magazzino senza limiti, e perciò, dunque, senza senso e senza identità? Mi sono sentito spesso rivolgere la domanda dai miei studenti: a che cosa serve tenere a mente nomi, date, trame di romanzi, versi di poesie, personaggi e dialoghi? A che cosa serve ricordare le parole di Amleto e Orazio a Elsinore, o il lamento di Tancredi per la morte di Clorinda? Come Arsenio e Dora Markus possono farci compagnia?

Condivido l’idea che simili esperienze “di carta” meritino di essere imparate perché mettono il cuore al riparo da una percezione opaca e riduttiva, volgare e semplificata della realtà e della vita. Tali incontri sono un pungolo per la ragione, che viene stimolata all’immaginazione e allo stupore, al di là di ogni pregiudizio o ideologia. Ricordare le parole e le storie degli altri spalanca la capacità affettiva dell’uomo, irrobustendone lo sguardo: garantisce una prospettiva adeguata alla ricchezza e complessità dell’esistenza. La registrazione (il sostantivo è di Henry James) dei desideri palpitanti attraverso, per esempio, la poesia greca equivale a una perpetua testimonianza. Continua a risuonare come un invito.

Oggi siamo abituati a considerare la memoria letteraria un optional: qualche cosa di ancillare e non competitivo rispetto ai dati, per lo più di tipo politico, economico e giuridico, che si devono ricordare. Forse è anche un modo per espungerne la portata sovversiva: le parole di Dante e Leopardi, infatti, le vicende del Rinascimento o del Risorgimento possiedono una forza che obbliga il ricordo a evolversi in azione, in interrogazione su sé e sul proprio destino.

Non è più tanto o solo questione di imparare a memoria A Zacinto o La cavalla storna. Il problema è che l’impazienza e la distrazione scolastiche producono inesperienza della vita. Leggere e ricordare un libro (una storia di carta: I promessi sposi, per esempio) è, all’opposto, un’occasione formativa: fornisce modelli, schemi di classificazione, paradigmi di bellezza, che consentono di interpretare il futuro. Ricordare le avventure di Ulisse, l’Azzeccagarbugli manzoniano o I demoni di Dostoevskij non è una fuga dalla realtà: al contrario, offre i termini di confronto per cui la realtà attuale si disvela nella sua urgenza e profondità.

Quante volte il ricordo del Castello di Kafka ha permesso di riconoscere la cifra autentica di una situazione presente? Come non sentire che la parabola del signor Ryder (protagonista del romanzo Gli inconsolabili di Ishiguro) intimamente ci riguarda, così che, grazie a essa, non dimentichiamo il bisogno di salvezza e conforto da cui è tramato il nostro labirintico mondo, vertiginosamente carente d’amore?

Tutti potrebbero augurarsi quel che Primo Levi bramava, recitando a memoria Dante al compagno di prigionia. «Forse ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle». Osare è il verbo chiave: osare ricordare Petrarca o Ariosto, Manzoni o Pascoli, perché le loro parole e i loro gesti sono indispensabili al nostro bisogno attuale di significato, al nostro desiderio di dare un nome e un volto al reale.

L’incontro, che la memoria assicura, si risolve in esperienza di rigenerazione. Qualcosa - dice Levi - di umano e necessario, che ci consente di intuire «il perché del nostro destino, del nostro essere qui oggi». In tale chiave la memoria del passato non lascia la sfida del nichilismo senza una risposta. Lo ha spiegato molto bene il filosofo Richard Rorty: le grandi opere letterarie hanno la forza di «far credere alla gente che questa vita vale più di quanto abbiamo mai immaginato». (di Uberto Motta da Il Sussidiario)

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