Nel giorno della memoria, la memoria del Lager. Il prof. Eugenio Fizzotti ci regala un estratto del suo saggio su Victor E. Frankl
Data: Mercoledì, 26 gennaio 2011 ore 11:00:00 CET Argomento: Redazione
Lasciare tutto! Decidere a quale
razza appartenere!
E giunse il momento tanto temuto: verso la fine di settembre del 1942
la Gestapo arrestò la famiglia Frankl. Iniziò
così la più tragica esperienza della vita di Viktor Frankl:
Theresienstadt, Türkheim, Kaufering ed Auschwitz furono le tappe del
suo Experimentum Crucis, tappe percorse non da psichiatra e ancor meno
da medico, quanto da internato medio, uno dei tanti, un uomo qualsiasi,
un numero: 119.104. Lavorò da semplice sterratore, costruendo
da solo un intero tunnel, progettato dai nazisti per collegare
l’esterno con una grande fabbrica sotterranea di munizioni. (…) Della
moglie e della madre non ebbe mai notizie, se non al rientro a Vienna.
Riuscì solo a veder morire tra le sue braccia il padre nel lager di
Theresienstadt. Ma ormai la sua maturazione nel dolore era tale che,
sia pure nella separazione materiale, manteneva con le persone care un
intimo legame spirituale. Basta rileggere le considerazioni da lui
scritte al ritorno dal periodo di internamento: “Comprendo ora il
senso del segreto più sublime che la poesia, il pensiero umano ed anche
la fede possono offrire: la salvezza delle creature attraverso l’amore
e nell’amore! Capisco che l’uomo, anche quando non gli resta niente in
questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema ‑ sia pure solo
per qualche attimo ‑ nella contemplazione interiore dell’essere amato”.
(V.E.
Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, Milano, 2009, p. 74).
Gli anni trascorsi nei lager furono
contrassegnati da condizioni ignobili, da maltrattamenti subiti da
parte dei Kapos, dalla mancanza delle più elementari risorse fisiche.
Costretti ad abbandonare tutto ciò che erano riusciti a portare con
sé, i prigionieri conservarono una sola cosa: la loro nudità.
Ed effettivamente, al comando di una guardia delle SS, essi dovevano
deporre tutto, tenendo con sé solo le scarpe, la cintura e le
bretelle, un paio di occhiali e tutt’al più il cinto erniario. “Con furia incredibile, la nostra gente si
strappa i panni di dosso. Mentre il tempo concesso sta per scadere, i
prigionieri si affannano, sempre più nervosi e inetti, intorno a capi
di vestiario e biancheria, fettucce e cinture ecc. ecc. Si cominciano a
sentire i primi schiocchi: nerbi di bue colpiscono corpi nudi. Poi, ci
spingono in un altro locale. Siamo rasati, e non solo sul cranio; su
tutto il corpo non resta nemmeno un pelo. ‑ Ci trascinano poi nelle
docce. Ci mettono in formazione, quasi non ci riconosciamo più tra di
noi. Ma ognuno di noi costata, con enorme gioia e sollievo, che dagli
imbuti della doccia cadono veramente gocce d’acqua... Mentre
continuiamo ad attendere, la nostra nudità ci diventa familiare: non
abbiamo nient’altro, soltanto questo corpo nudo; non ci resta nulla,
tranne questa nostra esistenza letteralmente nuda. Quale anello di
congiunzione esterno ci unisce ancora alla vita di prima?”.
Inutile fu lo sforzo di Frankl di salvare alcuni oggetti cari. Due
tesori aveva portato con sé: il distintivo dell’associazione alpina e
un pezzo di mosaico proveniente da una sinagoga del II sec. Av. C.
Ma... il distacco dal mondo degli uomini doveva essere completo. E così
gettò via ogni cosa. Tentò però di conservare qualcosa: il manoscritto
al quale aveva affidato se stesso, quale psichiatra e, ancor più, quale
uomo. Lo nascose nella tasca interna del cappotto e, alla SS che
obbligava a gettare tutto via, disse con accoratezza: “Stammi a sentire, tu! Ho qui con me il
manoscritto di un lavoro scientifico. So che cosa mi vuoi dire, lo so
benissimo: salvare la vita, uscirne con la vita e nient’altro, è tutto
quel che si può chiedere al destino, è il massimo. Ma non ci posso fare
nulla, io sono un megalomane e voglio di più. Voglio conservare questo
manoscritto, lo voglio conservare con qualsiasi mezzo, perché è il
lavoro di tutta la mia vita; capisci? - . E lui comincia a capire, mi
capisce benissimo. Comincia a ghignare, dapprima compassionevolmente,
poi ironico, sfottente, sarcastico, finché abbaia con uno sberleffo, e
liquida la mia domanda con una sola parola, che urla a gran voce,
quella parola che mi sarebbe toccato di sentire poi in continuazione,
come la “parola” del vocabolario del lager. Sbraita: “Merda!!”. E
capisco benissimo anche io come vanno le cose. Giungo al punto finale
di questa prima fase di reazioni psicologiche: cancello con un sol
tratto la vita trascorsa finora!». ( Ibidem, pp. 41-42).
Nei lager l’uomo perdeva tutta la sua
dignità. L’imperativo categorico di Kant nella “Fondazione della
metafisica dei costumi”: «Agisci in modo da trattare l’umanità,
sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come
fine e mai semplicemente come mezzo» aveva affermato la dignità
incontestabile dell’uomo. Nei lager tale imperativo dovette cedere il
passo di fronte al comando dello sfruttamento delle forze umane fino
all’ultimo respiro e dell’annientamento di coloro che venivano
considerati inutili, inefficaci, non‑produttivi. L’uomo non fu più
considerato il fine al quale indirizzare ogni attività, ma solo un
mezzo al servizio di programmazioni economiche e sociali, al
soddisfacimento di ambizioni di pochi fanatici. Nei lager si imparò ciò di cui l’uomo era
capace: le camere a gas, i forni crematori, gli strumenti di
sofferenza e di persecuzione, muti e implacabili testimoni di una
disumana pazzia. Tuttavia, anche nel lager Frankl scorse
mirabili esempi di altruismo, di bontà, di comprensione. Se tra le sentinelle vi erano dei sadici,
vi erano anche uomini che spesso sacrificavano il proprio denaro, a
rischio della vita, per acquistare medicinali che dovevano servire agli
internati.
«È dunque evidente che definire un
uomo come sentinella, o viceversa come internato, non significa
ancora nulla. Si può trovare bontà umana in tutti gli uomini, dunque
persino nel gruppo che sarebbe certo assai semplice condannare in
blocco. I confini si intersecano, dunque. Non dobbiamo giudicare
sbrigativamente, considerando angeli gli uni, e diavoli gli altri.
(…)Quando ricordo come un capo operaio (dunque un non internato) mi
diede una volta di soppiatto un pezzetto di pane ‑ e sapevo che l’aveva
risparmiato dalla sua razione del mattino ‑ ricordo bene che questo
pezzo di pane non era solo qualcosa di materiale; quell’uomo mi dava
qualcosa d’umano; una parola umana, uno sguardo umano accompagnavano il
dono...». ( V.E. Frankl, Uno psicologo nei lager, cit., pp.
143-144.) Ciò vuol dire che «sulla terra esistono soltanto due razze
umane, e solo queste due: la “razza” degli uomini per bene e quella dei
“poco di buono”. Queste due «razze» sono diffuse ovunque, penetrano e
s’infilano in tutti i gruppi». (Ibidem, p. 144). Incitato da tali
esempi, egli fece appello alle sue risorse umane e morali, riuscendo a
trovare un significato anche in quel genere di vita, e cercando di
comunicare ai compagni di sfortuna l’entusiasmo per la lotta, per lo
sforzo di difendere sempre la propria dignità, per saper sorridere
anche nelle sofferenze. Nonostante le limitatissime possibilità, riuscì
a volte a praticare una specie di psicoterapia collettiva (la sua
logoterapia), mediante la quale aiutò i compagni di sofferenza a
riscoprire l’interiorità, a valutare la loro responsabilità, a
comprendere come il sacrificio che essi compivano avesse un senso in
ogni caso. È interessante ricordare quanto disse ai compagni di
prigionia, stanchi ed estenuati dal lavoro massacrante, delusi di tutto
e di tutti, desiderosi solo di farla finita. In una sera tragica, dopo
una giornata di digiuno forzato, imposto come castigo dalle SS, i
prigionieri si trovavano raccolti nella loro baracca: al buio pesto
della notte si unì la mancanza improvvisa della luce elettrica.
All’invito del capoposto, Frankl si rivolse ai suoi camerati,
nonostante non fosse nelle migliori condizioni fisiche e psichiche. Le
sue riflessioni partirono dalla situazione penosa presente, disperata
senz’altro, ma non certo «la più tremenda tra quelle che si potevano
immaginare nell’Europa della seconda guerra mondiale e del sesto
inverno di guerra». Cercò di far
capire che in fondo la maggior parte aveva perso ben poco di
essenziale, proprio perché conservava ancora l’unica cosa
insostituibile: la vita. E proprio per questo la vita si
presentava ancora con un futuro, anche se offuscato e incerto e anche
se con una conclusione insospettata. Tuttavia, se il futuro non era
sicuro, si poteva e si doveva essere certi del passato. «Parlai
anche del passato, di tutte le sue gioie e della luce ch’esso emanava,
pur nell’oscurità dei nostri giorni. Citai di nuovo, per non diventare
idillico in prima persona, il poeta che dice: “Quanto hai vissuto, nessuna potenza del
mondo può togliertelo”. Ciò che abbiamo realizzato nella pienezza
della nostra vita passata, nella sua ricchezza di esperienza, questa
ricchezza interiore nessuno può sottrarcela ». (Ibidem, pp. 137-138.)
Ai compagni egli disse ancora che si hanno tante possibilità di dare
un senso alla vita nel lavoro, nell’amore, nel dolore. «Seppi presto che questo mio sforzo aveva
raggiunto il suo scopo. Quasi subito riprese ad ardere la lampadina
elettrica appesa a una trave della nostra baracca, e vidi le misere
figure dei miei compagni accostarsi al mio posto, zoppicando, gli occhi
pieni di lacrime, per ringraziarmi...». (Ibidem, p. 139)
Le conferme di ciò che aveva intuito negli anni giovanili e che aveva
abbozzato nel manoscritto abbandonato ad Auschwitz erano molteplici. Le
sofferenze dell’uomo, la disperazione dinanzi al tormento di una vita
senza senso, la serenità nell’affrontare le più disumane torture, la
lotta per una risposta angosciante al lento morire e il sì vittorioso
che inondava di gioia e di luce un’esistenza vissuta con pienezza,
erano elementi troppo pregni di significato per essere lasciati
infruttuosi nel campo di Auschwitz. Il dolore
riempie sempre una vita, e bisogna saperne cogliere in profondità il
significato. Per questo Frankl tentò di fissare sulla carta le
conferme che sempre più numerose ogni giorno sperimentava. Su ritagli
di carta, su buoni premio conservati gelosamente, trascorreva lunghe
notti a ricostruire stenograficamente il manoscritto.
Eugenio Prof. Fizzotti
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