Attività asasi: intervista a Max Bruschi, consulente del ministro
Data: Martedì, 25 gennaio 2011 ore 10:15:00 CET Argomento: Redazione
ASASi: Professore,
ritiene che la presenza di 13 organi collegiali in ogni scuola migliori
le condizioni amministrative, didattiche e gestionali?
BRUSCHI: Se vuole possiamo aggiungere anche, per la secondaria di
secondo grado, i comitati tecnico scientifici. Non ne farei una
questione di numero, ma di funzioni. Alcuni di questi istituti, dopo la
breve stagione di entusiasmo seguita alla promulgazione dei Decreti
delegati, si sono, per così dire, svuotati della missione per cui erano
stati concepiti, a volte (sottolineo, a volte) si sono trasformati in
mera ritualità, altre volte (sottolineo, altre volte) si sono caricati
di compiti impropri. Altri andrebbero probabilmente rivisti nella loro
composizione (penso al comitato di valutazione, che avrebbe il compito
per l’appunto di valutare, oltre al resto, l’anno di prova… ma come fa
un docente, poniamo, di latino a valutare l’anno di prova di un
“aspirante” di scienze motorie? In base a una relazione dell’aspirante
medesimo? Il tutto non è un po’ troppo autoreferenziale?). Esistono
diverse proposte di legge, prima fra tutte la proposta uscita dalla VII
commissione della Camera sulla base del testo Aprea, che affrontano la
questione. Uno a uno andrebbero verificati nella loro effettiva
incidenza sulla vita della scuola, casomai ricondotti a funzioni che
abbiano un senso. E se senso non ce lo dovessero avere, zac!
ASASi: L’assenza di valutazione del personale negli ultimi quarant’anni
ha influito sui livelli di apprendimento degli allievi?
BRUSCHI: Mi consenta una digressione, che poi digressione non è.
Personalmente ho in odio una espressione: “funzione docente”. Se
tornassimo a un più appropriato “professione docente” avremmo fatto
magari un passo avanti solo simbolico, ma un passo importante, quasi
“rifondativo”. Del resto, sono proprio le parole a condizionarci.
“Funzione” in effetti rende l’idea di qualcosa di automatico,
ripetitivo. Molto Lulù in “La classe operaia va in paradiso”. Eppure
non mi sembra ci sia un ruolo più distante dalla parola funzione che
quello dell’insegnante, del professionista che fa “segno”, ogni volta
diverso su persone diverse. Ma la parola “funzione” sterilizza ogni
possibile valutazione. E deprime chi ne è, per così dire, marchiato.
Con conseguenze inevitabili. Se tutta la “carriera” è basata
sull’anzianità o, per chi aspira all’ingresso in ruolo, su
quell’autentico mercato delle indulgenze costituito dalle fabbriche di
punti, dalla spinta all’appiattimento, a lungo andare, si salvano ben
pochi. E l’insegnamento, in perfetta anche se nefasta adesione al
dettato normativo, si trasforma appunto in funzione. Bisognerebbe
compiere dunque una prima rivoluzione semantica e tornare a parlare di
professione docente. Secondo, dire chiaro e tondo, fuori da ogni
ipocrisia, che i docenti NON sono tutti uguali. Che accanto a chi
esercita, nonostante tutto, una missione educativa, c’è chi non lo fa.
C’è il docente che si domanda “cosa ho insegnato oggi ai miei ragazzi?”
e quello che si chiede “a che punto sono del programma?”. C’è chi
trasforma delle situazioni anche impossibili in alleanze educative
formidabili e chi passa i risultati delle prove Invalsi perché teme di
essere valutato. Hanno tutti la stessa incidenza sugli apprendimenti
degli studenti? Parrebbe ovvio rispondere di no. E allora, è giusto che
siano messi tutti sullo stesso piano? Anche questa risposta mi sembra
ovvia. Infine occorrerebbe che l’ingresso in ruolo tornasse a essere il
punto di partenza di una carriera e non il punto di arrivo di un
inutile e controproducente purgatorio itinerante. Per questo sostengo
che occorra ripartire con un reclutamento basato sui concorsi.
ASASi: Pensa che esoneri, comandi, utilizzazioni dall’insegnamento
abbiano influito positivamente nel rapporto insegnamento-apprendimento?
BRUSCHI: Esoneri, comandi e utilizzazioni che, se non vado errato,
l’attuale ministro ha sforbiciato, o ricordo male? Mi sembra si mettano
sullo stesso piano situazioni un poco diverse e che invece, poniamo,
tra i fruitori della 104, i fruitori del diritto allo studio, i
comandati per l’autonomia ci siano delle differenze. Non lo dico per
fare una classifica, tutt’altro, ma perché far calare la notte che
ingrigisce le vacche e non aiuta ad accendere la luce. Il problema non
è nell’utilizzo, comando, esonero. Ma nel come lo stesso si configura.
Le faccio un esempio. Non troverei nulla di male se, poniamo, un
docente di scienze fosse “congedato” per alcuni anni per fare
un’esperienza lavorativa, che so, in un grande laboratorio. Per poi
rientrare alla base, arricchito da quello che ha appreso. E un docente
che frequenta un dottorato di ricerca, non arricchisce culturalmente se
stesso, la sua scuola, i suoi studenti? Alcuni di questi distacchi,
esoneri, comandi, utilizzazioni si trasformano invece in una situazione
permanente. Il che porta al grottesco di sentire pontificare di “scuola
reale” o di “scuola militante” persone che non entrano in una classe da
vent’anni o più. Personalmente preferisco farmi aiutare e consigliare
da chi a scuola ci sta, anche a costo (costo gradito) di andare a
lavorare da lui. Un comando al ministero, poniamo, è prezioso se è
temporaneo, perché crea un legame tra due ambienti che troppo spesso
risultano distanti. Idem per quanto riguarda un “supervisore”. La sua
figura ha senso se crea un interscambio tra scuola e università.
ASASi: È corretto che un docente possa far parte contemporaneamente
della RSU, del comitato di valutazione e del consiglio d’istituto?
BRUSCHI: Posso rispondervi con Giovenale? Quis custodiet ipsos custodes?
ASASi: Pensa che sia logico che un dirigente scolastico debba
rispondere del raggiungimento degli obiettivi specifici del suo
istituto, senza però avere potere di valutazione sul personale, poteri
di controllo sull’arruolamento di titolari e supplenti e poteri
disciplinari nei confronti degli studenti?
BRUSCHI: Glielo dico senza perifrasi: no, non è logico. Ed è uno dei
motivi per cui la valutazione dei dirigenti scolastici è ancora, per
così dire, al “caro amico”. Qualcuno mi dice, ad esempio, che la
valutazione potrebbe essere svolta sui “processi”. Naturalmente, il
“suggeritore” dovrebbe magari trasferirsi per un mese in una scuola in
una situazione “normale”, e cioè vittima dell’“anormale” turn over del
personale amministrativo. A meno, naturalmente, di ridurre i sullodati
“processi” all’obbedienza a protocolli più o meno astrusi, senza
nessuna ricaduta sull’efficacia ed efficienza reale del servizio. C’è
anche da dire che ho incontrato, nel mio cammino, numerose scuole, al
nord come al sud, che sono dei gioielli organizzativi. È, in questi
casi, la capacità di leadership del dirigente scolastico a fare la
differenza, quasi “a prescindere” dalla situazione ambientale e dai
condizionamenti del quadro normativo. Però la scuola non può vivere
solo di eroi… La sua domanda, naturalmente, pone una serie di questioni
“in positivo”. E cioè che un dirigente dovrebbe valutare il personale,
avere poteri di controllo sull’arruolamento di titolari e supplenti e
poteri disciplinari nei confronti degli studenti. Salvo l’ultimo
“potere”, su cui esistono delle titolarità ben precise (sta parlando,
in fondo, con l’inventore della norma sul 5 in condotta…) sul resto
potrei anche essere d’accordo. Ovviamente, ogni onore porta con sé
oneri, ogni responsabilità la possibilità di essere valutato in maniera
tanto positiva che negativa. Credo fortemente nell’etica dei
comportamenti individuali. Ritengo, ad esempio, utilissimo coinvolgere
le scuole nella scelta dei loro docenti. Ma sarebbe una libertà da
sorvegliare accuratamente, per impedire che si trasformi in arbitrio
clientelare. Per mutuare un esempio dall’estero, nessuno, nelle
università anglosassoni, si scandalizza se moglie e marito sono nello
stesso dipartimento. Perché? Perché chi facesse scelte non dettate da
considerazioni utili alla qualità dell’ateneo sarebbe irrimediabilmente
additato al pubblico ludibrio. E questo risultato è stato ottenuto
senza particolari norme, se non il comune buon senso e il senso di
“cittadinanza” che noi, patria del “cives”, abbiamo forse smarrito per
strada.
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