Pavese e il fallimento del mito. Piccolo saggio letterario di N. Palumbo
Data: Giovedì, 13 gennaio 2011 ore 12:00:43 CET
Argomento: Redazione



   “ Ma non è da credere che in sé questa esperienza del mito
    sia un privilegio dei poeti e, a un grado più discosto, dei pensatori.
   E’ un bene universalmente umano, è la religione che sopravvive
  anche nei cuori più squallidi e più meschini, i quali sarebbero
 ben stupiti se qualcuno gli spiegasse che dentro di loro è un germe
 che potrebbe diventare una favola. E’- occorre dirlo ?- la condizione
su cui si fonda la universalità e la necessità della poesia”.
 
                        ( C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi. Einaudi,1962 )


La poesia non è mai storia in atto, ma è storia di un mito; un mito che nel momento in cui fluisce diventa allegoria della parola, metafora del sentimento reale e delle parole, trasfigurazione.
Il senso reale si è perduto nella poesia, e se noi volessimo spiegarcela, altrimenti non potremmo che come sogno.
E’ difficile dire quale posto occupi la poesia di Cesare Pavese nella prima metà del Novecento. Difficile non tanto perché l’uomo abbia amato poco parlare di sé, quanto perché, è sembrato, che il letterato abbia ingrandito la sua “ pena d’uomo “ sino a farne un mito. E nel mito è stato arduo sceverare sino a che punto la realtà si sia mescolata con la mistificazione,  o il sentimento con la sua forma patologica. La difficoltà però non dovrebbe sussistere e non dovrebbe inficiare l’impressione di coerenza e di verità umana che pure si ricava dalla lettura di Lavorare stanca, ove si pensi che Pavese ha pagato di persona i suoi miti, cioè, in definitiva, i suoi squilibri di uomo e di artista incapace di inserirsi nell’attualità della esperienza quotidiana; e saremmo fin troppo parziali se, intenti solo a cercare la patogenesi nevrotica del suo suicidio, non lo inverassimo con la esperienza dolorosa della sua impotenza di uomo a possedere le cose. Una esperienza vissuta giorno dopo giorno nella solitudine agghiacciante del proprio io, padrone solo del proprio corpo :
     
                   Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
                   Delle piante e dei fiumi, e si sente staccato da tutto.
                   ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
                   che l’accettano  senza scomporsi: un brusio di silenzio.
                    …Qui al buio, da solo,
                    il mio corpo è tranquillo e si sente Padrone.
                   
                                                                      ( Mania di Solitudine ).

Allora, il suicidio, fuor di ogni gesto gratuito, ci parrà l’ultima parola di Pavese che esprime qualcosa  in tanta nullità di vita, e la donna se non proprio la sola causa, certo l’ispiratrice più immediata e più costante dei suoi pensieri suicidi: “ Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”.
 Pavese cercherà inutilmente di colmare tanto vuoto nella sua vita; l’incontro mancato con la donna inciderà profondamente sul suo fisico e sulla sua sensibilità.

Negato all’azione e all’impegno politico militante neppure l’isolamento del confino riuscirà a dargli quell’equilibrio interiore che è saldezza morale nata dal raccoglimento e dalla meditazione delle proprie sventure. Nell’isolamento del confino – scrive Lajolo – Pavese non aveva saputo darsi nessuna dieta morale. Al contrario accettava tutte le tentazioni autolesionistiche, senza opporre resistenza e sopravvivendo soltanto nella speranza di ritrovare quella donna e nel successo delle sue poesie.
Ma la donna “ dalla voce rauca” non ritornerà più nella vita di Pavese se non solo attraverso il ricordo, il sogno, le allucinazioni; essa sarà l’oggetto mitizzato dalla poesia attraverso la quale la miseria dell’uomo diventa la grandezza dell’artista, e questo non perché l’arte ha trasfigurato quella miseria, ma, al contrario, perché ce l’ha resa comprensibile. La pena d’uomo è fatta mito, ma questo è la sostanza stessa dell’uomo.
 Nasce così la liricità oggettiva di Lavorare stanca e il suo realismo simbolico : la donna, la collina, e la città, l’io e le cose nel momento in cui ci sembra di poterli afferrare ci sfuggono : l’unicità del fatto e delle sue circostanze rende il mito fuori del tempo, e la poesia a-temporale e a-spaziale :

                       Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
                        sotto il sole : una luce salsa l’impregna
                        e un sapore di frutto marino vivo.
                        Non esiste ricordo in questo viso.
                        Non esiste parola che lo contenga
                        o accomuni alle cose passate. Ieri
                        dalla breve finestra è svanito come
                        svanirà in un istante, senza tristezza
                        né parole umane, sul campo del mare.
                                                                        ( Mattino)
Qui veramente il mito è antecedente della poesia, e questa nella sua immobilità si fa mitica. Quella donna che il poeta ha “ creata dal fondo di tutte le cose “ che gli sono più care e che l’uomo non è mai riuscito a comprendere, nella vastità abbacinante della luce mattinale ha un volto su cui non esiste più nessun ricordo; è la vaga memoria di un tempo che è “ al di là dai ricordi” ( La Notte ).
Questo processo di allontanamento della donna nella sfera del ricordo presuppone un’ardua operazione di autoanalisi ; un ritorno, non casuale, né meramente sentimentale, alla inesauribile matrice dell’infanzia :
                              
                                   Mi sorprende, a pensarla, un ricordo remoto
                                   dell’infanzia vissuta tra queste colline,
                                   tanto è giovane. E’ come il mattino: Mi accenna negli occhi
                                   tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
                                   E ha negli occhi un proposito fermo : la luce più netta
                                   che abbia  avuto mai l’alba su queste colline.
                                   L’ho creata dal fondo di tutte le cose
                                   che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
                                                                                                ( Incontro )
Oppure si legga la Notte :

                                    ...
                                   Per la vuota finestra
                                   il bambino guardava la notte sui colli
                                   freschi e neri, e stupiva di trovarli ammassati :
                                   vaga e limpida immobilità. Fra le foglie
                                   che stormivano al buio, apparivano i colli
                                   dove tutte le cose del giorno, le coste
                                   e le piante e le vigne, eran nitide e morte
                                   e la vita era un’altra, di vento, di cielo
                                   e di foglie e di nulla. Talvolta ritorna
                                   nell’immobile calma del giorno il ricordo
                                  di quel vivere assorto, nella luce stupita.

E si leggano ancora : Un ricordo, Mattino, Notturno.

Anche qui è “l’infanzia a decidere”; la natura mitica del paesaggio si anima di misteriose corrispondenze e diventa fantasticamente quel tempo baudelairiano “ où de vivants piliers laissent parfois sortir de confuses paroles;  ecc.ecc. ( Corrispondences).

Sembrerebbe che il problema dell’oggettivazione, della resa realistica e insieme simbolica dell’oggetto, sia sfumato nelle forme dell’indefinito video-sensoriale, e che, in definitiva, Pavese abbia accettato la identificazione del mito  con la memoria dell’infanzia poetica. Ma è un’accettazione che in sede di poetica non può durare, perché Pavese sa che l’infanzia poetica è soltanto una fantasia dell’età matura; e che lo stato innocenziale, una volta perduto, è impossibile ritrovarlo. In realtà – dice egli stesso- è impossibile  ritrovare ( ri-creare ) le cose come ci apparvero la prima volta; in quanto “ ricordo” esse cominciano ad esistere solo da una “ seconda volta”. “ La poesia è altra cosa. In essa si sa di inventare, ciò che non accade nel concepire mitico…L’ingenuità della barbarie per cui la poesia è conoscenza oggettiva, non ritorna una volta violata. Il miracolo dell’infanzia è presto sommerso nella conoscenza del reale e permane soltanto come inconsapevole forma del nostro fantasticare, continuamente disfatta dalla coscienza che ne prendiamo…La poesia cerca sovente di rinverginarsi, ricorrendo alle memorie dell’infanzia…ricalca le forme del mito e del simbolo, sperando che in esse torni a battere magicamente il cuore. Ma dimentica che essa sa di inventare, e che il mito vive invece di fede…”. (1)

Si chiarisce così la posizione psicologica di Pavese di fronte al mito, e per conseguenza di fronte alla poesia  “espressione corposa del mito “.
La poesia come contenuto spirituale mitico trova sì la sua costruzione oggettiva, ma al tempo stesso il suo limite nella poesia come fattura e linguaggio. Ecco il processo dialettico e la ambivalenza del mondo poetico di Pavese. Egli stesso scrive : “ Far poesia significa portare ad evidenza e compiutezza fantastica  un germe mitico. Ma significa anche, dando una corposa figura a questo germe, ridurlo a materia contemplativa, staccarlo dalla materna penombra della memoria, e in definitiva abituarsi a non crederci più, come a un mistero che non è più tale”. (2)
  C’è dunque nel mito pavesiano, nell’atto di tradursi in poesia, la disperazione e insieme la lucida coscienza di essere ridotto solo alla sua sostanza umana; tutto sembra non poter vivere che nella miseria angustiosa dei “ limiti” della “persona”. Si capisce allora perché in Pavese il problema della oggettivazione del rapporto fantastico diventa arduo e quasi impossibile, e perché, anche, spesso accanto al mito della donna si confonde il mito del sesso in cui trasuda la sensualità malata dell’uomo ora-qui.
Ed è questo, a mio avviso, che distacca la poesia di Pavese dalla mitica sensualità trasumanante di D’Annunzio e che l’avvicina semmai ,mutatis mutandis ,  a quella di Baudelaire.                                  
Nel poeta francese, il mito della donna, forgiato ad immagine della malattia sessuale dell’uomo, diventa una terribile arma di vendetta, e questa, non dominata, sfocia nel più crudo realismo simbolico :
                      Toi qui, comme un coup de couteau,
                       dans mon coeur  plaintif es entrée;
                       toi qui, forte comme un tropeau
                       de démons vins, folle et parée,

                       de mon esprit humilié
                       faire ton lit et ton domaine;
                      - infame à  qui je suis lié
                       comme le forçat à la chaine,
                       
                       comme au jeu le jouer tetu,
                        comme à la bouteille l’ivrogne
                        comme aux vermines la carogne,
                        maudite, maudite sois-tu!
                      ………………………………….
                      ………………………………..
                                                      
                                                           ( Le Vampire )

La donna diventa forza demoniaca ammaliatrice, vizio che ubriaca e fiacca le membra, maledetta schiavitù, vampiro!
 Così in Pavese.Tutti gli accoppiamenti, diremo meglio, i rapporti fantastici diventano possibili in questa trasfigurazione, e per essa ( trasfigurazione) è possibile che la donna diventi una cagna che “ come tutte le cagne non voleva saperne/ ma ci aveva l’istinto” ( L’istinto ).
    Nel mito dannunziano, la carne aperta ad ogni sensazione si annullava sino al suo indiamento ( si  legga Meriggio); ma a questo miracolo trasumanante Pavese non crede più, perché il mito “vive di fede” e questa era irrimediabilmente perduta.
Il fallimento del mito è il fallimento dell’uomo.
                                                                                        NUCCIO PALUMBO


                       
Note:
1) C.Pavese, La letteratura americana e altri saggi. Einaudi, 1962.
2) ibidem

Cesare Pavese , Le poesie ,ed. Einaudi1998                         







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