Un
rabbino dice che quando un uomo arriva nell’altro mondo gli viene
domandato:
“Chi è stato il tuo maestro e cosa hai appreso da lui?”.
Chi insegna, dice. Chi dice, mostra. “Dire” deriva dal greco
“mostrare”,
“indicare”. Ciascuno uomo parlando è maestro. La parola è strumento
pedagogico
per eccellenza. Non esiste disciplina senza maestri e discepoli: la
conoscenza
è trasmissione.
Anche Dio nel farsi uomo ha scelto l’identità sociale di falegname
prima
(imparando da un padre) e di maestro dopo (dicendo il Padre).
La giornata mondiale del professore è la giornata mondiale di chiunque
usi la
parola per indicare il mondo a qualcun altro: dai genitori al passante
che
risponde ad una domanda (sarà per questo che ci dispiace così tanto
quando non
sappiamo esaudire una richiesta di informazioni stradali?).
Le cose stanno così perché la struttura stessa del mondo è pedagogica:
mostra
senza costringere. Pedagogo è colui che guida il bambino, il ragazzo
verso se
stesso. Agli occhi del Creatore siamo bambini guidati a se stessi e di
riflesso
a lui, che ha ripetuto spesso che solo i bambini accedono. Se questo è
vero, se
il Creatore è anche il Bene onnipotente, la struttura stessa del mondo
è una
continua pedagogia pratica che ci conduce a ciò che – sembra assurdo –
resistiamo a fare di più: vivere. Sono venuto perché abbiano la vita e
l’abbiano in abbondanza, diceva.
Vivere è perdere la paura. Il principio di opposizione alla struttura
pedagogica del mondo è la nostra resistenza ad amare e ad essere amati.
Pur
avendone un bisogno primordiale, resistiamo. Resistiamo ad essere amati
per
paura che chi ci ha dato la vita non sia Padre ma tiranno, pronto a
strapparci
ciò che abbiamo (il servo che riceve un solo talento ha paura di un
“padrone”
che miete dove non ha seminato).
Sospettiamo del padre e quindi sospettiamo della libertà. Liberus in
latino
vuol dire figlio: senza libertà non si vive, ma solo da figli si è
liberi.
Resistiamo ad amare, perché il senso dell’amore è dono di sé, e questo
richiede
un’uscita continua da sé, per fare degli altri il centro dell’universo
anziché
di noi stessi. Ma questo fa paura perché richiede creatività e sforzo
quotidiani.
In entrambi i casi è la paura che ci frena o vince. Ma la realtà –
l’amore che
per l’universo si squaderna direbbe Dante - sembra fatta per abbattere
il muro
di paura. “Dio è iconoclasta”, diceva Lewis nel Diario di un dolore:
spezza
tutte le immagini finte, gli idoli che costruiamo e imbrigliano la
nostra
capacità di amare ed essere amati. A noi resta la libertà di scegliere
se
arrenderci all’amore o no, se muoverci verso il polo della paternità o
rintanarci in quello della solitudine.
Il maestro, dopo e insieme ai genitori, partecipa alla struttura
pedagogica del
mondo più di chiunque altro. Il professore è chiamato ad essere in una
stessa
persona padre e madre. Quando un papà lancia il bimbo in aria, la mamma
preoccupata chiede al marito di metterlo giù. La madre tiene il figlio
ancorato
a terra, lo protegge, il padre lo lancia nel futuro, nell’ignoto,
spingendolo a
credere nelle proprie capacità. Solo questo sguardo duplice rende i
ragazzi capaci
di stare al mondo essendo se stessi: comprensione e sfida, attenzione e
slancio.
Quando il mio professore di lettere mi prestò la sua edizione del poeta
da lui
preferito dicendomi “Questo tu lo puoi capire”, accelerava la mia
percezione
della struttura paterna e materna della realtà e quindi della libertà.
Vedeva
una mia qualità ancora tenue e la incoraggiava riponendo in essa una
fiducia
maggiore di quello che in quel momento valeva. Quel libro mi obbligò a
scoprire
la bellezza della poesia senza obbligarmi. Faceva nascere la libertà di
impegnarmi da un surplus di fiducia, che nello stesso atto mi
comprendeva e mi
lanciava nel futuro. Madre e padre insieme.
Ogni professore, che lo voglia o no, è chiamato a porre questo sguardo
sul
proprio alunno. Gli psicologi lo chiamano effetto Pigmalione, il famoso
sculture mitico che creò una donna tanto bella da innamorarsene e da
costringerla a diventare di carne e ossa, tale era il suo amore. È
ormai
assodato che uno studente “non amato” dal suo professore andrà male,
indipendentemente dalle sue capacità.
Insegnare è mettersi al servizio di ciò che di più vitale ha un essere
umano,
conservare e proteggere il nocciolo più intimo di una persona. Un
insegnamento
scadente, una pedagogia improvvisata, uno stile di istruzione cinico
nei suoi
obiettivi puramente utilitari, sono rovinosi, distruggono la speranza
alle
radici, sono un assassinio.
I genitori sono, con il loro amore unito, la grande risorsa pedagogica
del
mondo. I professori partecipano a questa pedagogia per privilegio e
alleanza.
Il loro sguardo può contribuire a trasformare una statua in un uomo, a
rendere
un ragazzo libero di essere se stesso. Felice.
Alessandro D’Avenia