Cinema sociale, i film del 2010 che ricorderemo
Data: Domenica, 26 dicembre 2010 ore 09:02:59 CET Argomento: Rassegna stampa
Dal
terremoto dell'Aquila fino alla condizione di Napoli. Dalla memoria
storica del paese - con riferimento alle stragi nazifasciste - alla
vita degli operai di oggi, al tempo della crisi economica. E poi
l'anniversario dei 150 anni dall'Unità di Italia che cade nel 2011,
celebrato nel capodopera di Martone Noi credevamo. A fine anno,
possiamo dire che i maggiori spunti di cinema sociale e impegnato degli
ultimi dodici mesi vengono proprio dall'Italia: una manciata di
pellicole, in netta minoranza rispetto alle grandi produzioni, che sono
ancora capaci di provocare le coscienze alimentare il fuoco del
dibattito.
Discussioni ovviamente non riconciliate, come si addice alla storia del
nostro Stato, dove i dubbi e i punti interrogativi sono più stimolanti
delle facili risposte. E sullo sfondo naturalmente restano i registi
europei e americani, capaci da parte loro di sollevare questioni non
meno spinose e complesse.
Draquila vince il premio ideale della maggiore polemica del 2010. Il
documentario di Sabina Guzzanti, che smaschera la "cricca" di
speculatori sul terremoto in Abruzzo, non è piaciuto al ministro dei
Beni culturali Bondi. Attacchi più svariati sono arrivati da tutto il
centrodestra, a partire dalla presentazione al Festival di Cannes, dove
il film - come sempre si dice - avrebbe dato "una cattiva immagine
dell'Italia". In realtà a livello cinematografico, ispirandosi a
Michael Moore, Guzzanti offre un affresco dall'Aquila post-sisma, dove
la tragedia diventa una macchina elettorale, incombe l'ombra della new
town e i cittadini colpiti sono costretti in case di plastica, come da
"miracolo" berlusconiano. La metafora del titolo allude al paesaggio
apocalittico della città distrutta dove, come nelle storie di vampiri,
i governanti al potere "succhiano il sangue" delle persone colpite
dalla disgrazia.
Ma l'Aquila non è l'unica città problematica, quindi meritevole di
attenzione. L'amore buio di Antonio Capuano ci ricorda che c'è anche
Napoli: qui si svolge una vicenda di ordinaria criminalità, dove un
ragazzo dei quartieri poveri violenta una giovane benestante e inizia
il ravvedimento dietro le sbarre, attraverso uno scambio epistolare con
la vittima. Rielaborando un episodio di cronaca realmente accaduto, il
cineasta conferma la sensibilità particolare nel ricreare la realtà
attraverso l'artificio. Servendosi di diverse forme espressive, come il
teatro, la poesia e la musica napoletana, racconta una storia
profondamente legata alla città, pasoliniana, che si esprime in
dialetto. Capace di rendere memorabile - tra le altre - la ripresa in
cui la protagonista Irene, chiusa nella sua buona educazione, visita
per la prima volta il centro storico di Napoli sotto una pioggia
torrenziale.
La nostra vita di Daniele Luchetti conquista Cannes, con il premio per
migliore attore ad Elio Germano (ex aequo con Javier Bardem):
interpreta un operaio edile che, dopo la morte della moglie, deve
andare avanti da solo con i due figli piccoli. Nel frattempo due film
molto diversi, entrambi apprezzati all'unanimità, raccontano la Storia
italiana: da una parte c'è L'uomo che verrà, rievocazione naturalistica
della strage di Marzabotto (29 settembre - 5 ottobre 1944) compiuta dai
nazifascisti. Il regista Giorgio Diritti, che ha un rapporto
privilegiato con la Natura e la capacità particolare di inserire le
figure nel paesaggio, ricostruisce l'orrore del conflitto a modo suo:
mostrando le devastazioni del regime sui corpi e la natura, ricordando
senza retorica i fatti delle colline emiliane.
Il film di Mario Martone, Noi credevamo, merita un discorso a parte.
Raccontando il Risorgimento dagli occhi della gente comune, i piccoli
patrioti che agiscono nella Storia, questo riesce nel miracolo di
mettere tutti d'accordo. Uscito inizialmente in poche copie, si affida
al passaparola e guadagna file di pubblico, sale piene per una
pellicola lunga e complessa. Se l'afflusso di spettatori non è un metro
di giudizio assoluto, per una volta l'applauso generale significa
davvero qualcosa. Il film più bello dell'anno lancia una serie di
allusioni sull'attualità, la politica e la società italiana.
Il cinema europeo, dicevamo. Anche nell'arco del 2010 - limitandosi
alle poche uscite italiane - ha messo sul piatto molti nodi sociali.
L'anno è iniziato con Welcome, bellissimo film del francese Philippe
Lioret, sul tema dell'integrazione: la storia dell'insegnante di nuoto
di Calais, che dà lezioni al giovane curdo per attraversare la Manica e
ricongiungersi con la ragazza amata, è scritta, diretta e recitata
bene. Imparare a nuotare è la difficoltà degli Stati occidentali a
convivere con gli altri, confrontarsi con la diversità. In occasione
del Clandestino Day di Carta (venerdì 24 settembre), Welcome è stato
proiettato e discusso in molte scuole italiane.
Sempre a inizio anno, è tornato in Italia il regista inglese più
militante in assoluto: Ken Loach ha firmato Il mio amico Eric. E' la
storia di un operaio inglese fallito e alcolizzato che vede
l'apparizione dell'ex attaccante del Manchester United, Eric Cantona,
sempre pronto a dispensare consigli e suggerire scelte di vita. Pur
frequentando i territori della commedia, al solito Loach conferma la
sua peculiarità: quella di dipingere la realtà, concentrarsi sulla
parte proletaria della società e ricrearne le condizioni, senza
addolcirle. La sbornia, il divorzio, la microcriminalità sono sempre
dietro l'angolo. Anche se lo sguardo è partecipe e prende posizione,
non c'è bisogno di "migliorare le cose", più onesto e diretto mostrarle
come sono. Loach tornerà nel 2011 con Route Irish, raccontando la
storia drammatica di due guardie private che lavorano per la sicurezza
in Iraq.
Un'altra pietra miliare dell'annata arriva sempre dalla Francia e si
chiama Uomini di Dio. Il film di Xavier Beauvois, Gran premio della
giuria al Festival di Cannes, ripercorre un tragico episodio del 1996:
il massacro di otto monaci francesi, che vivevano sui monti del Maghreb
in Algeria, a opera dei terroristi islamici in seguito dell'escalation
di tensione nel paese. La particolarità, però, è che nella rilettura
del regista i protagonisti diventano "preti laici": dalla quotidianità
all'incontro con il terrorismo, ne viene mostrato rigorosamente il lato
umano, non quello religioso. Se da una parte vengono riprodotti i riti
cristiana, dall'altra a prevalere è sempre il corpo e il cervello:
tutto lo spazio è per i volti dei monaci, le loro azioni e riflessioni.
L'opera in originale si intitola Des Hommes et des dieux, ma in Italia
il titolo viene storpiato in senso monoteista: in ogni caso, resta la
riflessione generale sulla convivenza e sulla speranza di creare una
"babele" delle religioni, minacciata dall'ombra della violenza. In una
delle sequenze migliori, i monaci stessi invitano a non generalizzare
sul terrorismo islamico, rivolgendo il saluto "Insciallah" ai cittadini
musulmani.
Non poteva mancare l'Iran. Presenza fissa sulle cronache
internazionali, soprattutto con il caso Sakineh, dal regime di
Ahmadinejad arriva il film Donne senza uomini di Shirin Neshat, molto
apprezzato al Festival di Venezia. Questa è un'opera corale ambientata
a Teheran nel 1953, girata in Europa con interpreti iraniani: le storie
di alcune ragazze, vittime di società e impostazione mentale
maschilista come dirette conseguenze del governo dittatoriale. Parlando
del passato per alludere al presente, la pellicola - con i suoi pregi e
difetti - non teme neanche di virare sul surreale, sulla costruzione
del quadro visivo, coltivando l'ambito cinematografico insieme a quello
più strettamente sociale.
Infine gli Stati Uniti. Complessivamente meno impegnata e più
spettacolare, la produzione americana va segnalata almeno per due film:
Invictus di Clint Eastwood, che racconta la vittoria del Sudafrica
nella Coppa del mondo di rugby (1995), un passo decisivo per superare
la segregazione tra bianchi e neri. Lo fa attraverso due punti di
vista: i protagonisti della squadra e il presidente, Nelson Mandela (un
memorabile Morgan Freeman), che ha appena abolito l'apartheid e adesso
deve superare effettivamente il razzismo. L'altro è The social network:
la pellicola di David Fincher è il numero uno dell'annata Usa. Non si
può dire propriamente "sociale", ma non importa: perchè racconta la
storia di Mark Zuckerberg, la creazione di Facebook, le cause selvagge
intentate dai suoi amici. L'uomo dell'anno di Time è una figura
controversa, un giovane capitalista sfrenato che fa riflettere sulla
nascita di un'azienda, sull'arricchimento personale che coincide con la
distruzione dei rapporti umani e del rispetto verso l'altro.
Il film sociale di Natale è We want sex, ne abbiamo parlato in separata
sede.(di Emanuele Di Nicola da http://www.rassegna.it/)
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