L’Italia sfiduciata di Rosario Pesce
Data: Sabato, 25 dicembre 2010 ore 13:26:37 CET
Argomento: Rassegna stampa


Lo scorso 14 dicembre abbiamo avuto modo di osservare due volti ben diversi del nostro Paese: l’uno è quello rappresentato dai parlamentari, che hanno votato la fiducia al Governo Berlusconi, mantenendo in vita così un Esecutivo delegittimato a livello europeo ed internazionale; l’altro è rappresentato dagli studenti, liceali ed universitari, che sono scesi in piazza per contestare la Riforma Gelmini, che nei giorni successivi a quella data sarebbe stata, poi, approvata definitivamente dai due rami del Parlamento.
Due Italie, quindi, ben lontane l’una dall’altra, anche se entrambe espressione della medesima crisi, sia valoriale che economico-politica.
La conclamata compravendita di deputati, che ha consentito al Governo di superare un momento delicato, non ci inquieta oltremodo: il trasformismo – e le perverse logiche sottese – è sempre stato l’elemento fondante della prassi politica, a partire dai primissimi Parlamenti dell’Italia sabauda. Peraltro, il voto di fiducia del 14 dicembre non ha, certamente, risolto i problemi strutturali che minano la saldezza dell’odierna maggioranza: probabilmente, il redde rationem per il Governo Berlusconi è stato semplicemente rinviato ai primi mesi del 2011 o, al più, alla prossima primavera, quando l’Esecutivo dovrà assumere decisioni tanto gravi, quanto essenziali in materia di finanza pubblica - chiedendo un ulteriore sacrificio agli Italiani - e non potrà farlo con i ristretti numeri attuali.
Ben più drammatico è il volto dell’altra Italia, quello costituito dagli studenti che, negli ultimi mesi, hanno contestato la Riforma Gelmini, che ha messo mano al riordino dell’istruzione secondaria ed universitaria.
Quei giovani rappresentano un punto di domanda inquietante per gli adulti – di Destra, di Centro e di Sinistra – che aspirano a governare l'Italia: sono l’immagine plastica di una parte rilevante del nostro Paese, che avverte tragicamente il senso di un futuro precario e che, perciò, contesta un’intera classe dirigente, che appare inadeguata e cinicamente sorda alle sue reiterate grida di aiuto.
L’Italia, a partire dall’immediato secondo dopoguerra, ha realizzato un notevole avanzamento in termini di civiltà, oltre che di crescita economica: tale sviluppo ha riguardato soprattutto i ceti sociali, di volta in volta, emergenti ed ha contribuito a ridimensionare molto gli spazi di povertà e le forti iniquità, che erano evidenti nei primi decenni del XX secolo.
Negli ultimi venti anni, una simile condizione è venuta progressivamente scemando, perché, anche per effetto dell’internazionalizzazione del Capitalismo, la forza-lavoro europea ha perso potere contrattuale ed il divario con le classi forti si è notevolmente ampliato: la concomitante crisi della finanza pubblica impedisce, tuttora, agli Stati di finanziare quelle politiche atte a garantire la sopravvivenza ai ceti che vengono espulsi dal processo produttivo e che, quindi, sono bruscamente esclusi dall’accesso alla ricchezza e ai servizi non gratuiti.
Nel corso di questi ultimi due decenni (coincidenti, più o meno, con gli anni della cosiddetta II Repubblica), le ricette anti-crisi della Destra e della Sinistra, purtroppo, si sono somigliate tantissimo: nessuno può dimenticare come la normativa, in materia di lavoro interinale e a tempo determinato, sia stata introdotta dai Governi di Centro-Sinistra alla fine degli anni ’90. Molti esponenti di rilievo di quelle maggioranze parlamentari esaltavano la precarizzazione del rapporto di lavoro dipendente, descrivendola come un’opportunità e non come una minaccia per gli standard di benessere raggiunti, precedentemente, dall’Italia.
Finanche le organizzazioni sindacali, ad esclusione della C.G.I.L., hanno sostenuto simili scelte politiche, non avvertendo i pericoli che, da queste, sarebbero derivate.
Oggi, a distanza di qualche anno dall’introduzione di quella legislazione, si avvertono pesantemente i segni di una crisi, che non risparmia neanche il ceto medio, che ha vissuto, per diversi decenni, in una condizione di benessere e di agi.
Ad avvertire la crisi più tragicamente degli altri sono i giovani, per i quali la prospettiva di vita non è affatto allettante: se ci sarà, il lavoro per loro non potrà che essere precario, malpagato e con scarsissime garanzie. Di fatto, il sistema economico europeo sta ripercorrendo una strada inversa a quella percorsa dagli inizi dell’Ottocento, riportando la manodopera europea (anche quella intellettuale e non solamente quella operaia) alle condizioni di vita non dissimili da quelle successive ai tempi della prima industrializzazione.
Il diritto fondamentale dei giovani, che viene nell’immediato leso, è quello alla formazione e all’istruzione.
Riduzione degli indirizzi di scuola secondaria; peggioramento dell’offerta formativa; chiusura di Atenei; maggiori costi per l'acquisto dei libri, di cui non viene più garantita la gratuità per quanti frequentano la scuola dell’obbligo; eliminazione delle borse di studio per i meritevoli ed i bisognosi, sostituite da prestiti erogati dallo Stato, sono provvedimenti che vanno, tutti, nella medesima direzione: minano la crescita democratica dell’Italia e fanno paventare un futuro molto meno roseo di un presente già triste.
In un quadro simile, segnato dalla recessione, è opportuno che quelle forze politiche, deputate per vocazione alla difesa degli interessi dei più deboli, diano un segnale di forza, elaborando idee, leadership ed una nuova soggettività politica: altrimenti, sarà un’altra Destra, più autoritaria di quella attuale, a guidare il dissenso sociale e a trarre vantaggi dall’implosione di una classe dirigente centrista - come quella odierna - adatta, forse, a governare il Paese in tempi di vacche grasse, ma priva di una cultura e di una progettualità idonee ad affrontare momenti economicamente non felici.

Rosario Pesce - scuole24ore.it





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