Riforma Gelmini, tempo di bilanci?
Data: Lunedì, 20 dicembre 2010 ore 14:59:56 CET Argomento: Rassegna stampa
Il 10 giugno
2008 il Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini pronunciò in
Commissione Cultura della Camera un discorso programmatico che riscosse
anche le simpatie della sinistra riformista. La giovane ministra faceva
riferimento all’emergenza educativa, di cui soffre il Paese, e puntando
l’indice al quadro europeo dove l’Italia era relegata agli ultimi posti
nelle statistiche Ocse-Pisa che misurano le competenze
scientifico-matematiche dei 15enni, lanciava con piglio inconsueto le
sue soluzioni.
Per recuperare il capitale umano disperso (quello dei giovani che
fuoriescono dal sistema di istruzione, ed anche di quelli che vi escono
con un diploma poco spendibile) occorreva fare perno (questo era il
senso delle linee di indirizzo) su una visione della scuola come
servizio alla nazione piuttosto che cassa di compensazione di certa
disoccupazione intellettuale.
Si trattava, veniva rimarcato, di aprire fronti nuovi: la
valorizzazione dei docenti, la cultura del merito, l’autonomia
scolastica, la parità tra scuola statale e non statale. Sembrava che
allora lo si potesse fare ricorrendo addirittura a quanto di meglio
aveva prodotto la riflessione politica del centro-sinistra in campo
scolastico: il Libro bianco sulla scuola del settembre 2007 che tra le
altre cose proponeva una riduzione del numero degli insegnanti per
classe (misura che poi è stata adottata, in condizioni politiche non
certo di dialogo).
Dopo due anni e mezzo, i numerosi provvedimenti che sono stati messi in
cantiere rendono possibile un bilancio, per quanto ancora
interlocutorio, che per essere realistico dovrà tenere conto non solo
dei principi enunciati in partenza, ma anche delle condizioni nelle
quali il percorso si è realizzato. O meglio delle coordinate che sono
state imposte alla scuola dalla legge finanziaria per l'anno 2009 che
ha preteso (art. 64) un mix di razionalizzazione dell’impiego dei
docenti (volgarmente i “tagli del personale”) e di ridefinizione dei
curricoli dei diversi ordini di scuola (nobilmente le “riforme”).
Ora, già è complicato fare le riforme avendo le risorse (come dimostra
per altri aspetti drammatici il mondo universitario che pure può godere
di un piano finanziario non indifferente); certamente molto più
difficile è farle con risorse esigue, seppure non del tutto mancanti
sul piano generale. A questo livello bisogna però intendersi sul
concetto stesso di “risorsa”, che non è calcolabile solo sulla base di
ciò che si spende (l’Italia in rapporto al Pil spende il 4,5% e in
rapporto alla spesa pubblica totale il 10% circa, contro medie Ocse più
alte), ma anche di ciò che si capitalizza in termini di qualità
dell’offerta formativa, di valorizzazione delle figure professionali
esistenti nella scuola e di personalizzazione dei percorsi.
È risorsa ciò che genera cultura; non lo è necessariamente un
investimento che non genera capacità di dare senso a ciò che accade
nella vita e nella realtà. Le attuali contingenze politiche ed
economiche non consentono di immaginare scenari in cui alla scuola si
possano trasferire più risorse di quelle che sono consentite da una
stagione di risparmi che investe ogni settore della vita produttiva del
Paese. Nessuno vieta di pensare, tuttavia, che sia attuabile una
strategia che mira a migliorare la qualità dei piani di studio proposti
dalle scuole al territorio e, nelle scuole, dai singoli insegnanti,
distribuendo e organizzando nel migliore dei modi la quantità dei mezzi
di cui si dispone.
Da anni, e da più parti, si è teorizzato che l’essenzialità dei
percorsi scolastici, ridisegnati in chiave europea sia per quanto
riguarda i quadri orari, sia gli anni di studio possa essere
compatibile con l’innalzamento della qualità dell’istruzione
(Berlinguer volle provarci riducendo di un anno il ciclo primario: e
gli andò male; ai tempi della Moratti l’ipotesi di licei di soli
quattro anni fu ben presto ritirata).
Il presupposto che rende l’eventuale dimagrimento accettabile è che sia
connesso a misure di rafforzamento dell’autonomia scolastica e di
sostegno della professione docente in termini di sviluppo di una
carriera del docente, sottratto al ruolo impiegatizio cui è, nei fatti,
relegato. L’attuale riassetto del sistema scuola cui ha messo mano il
ministro Gelmini ha snellito la macchina, senza che fosse del tutto
chiaro il rapporto con le opportunità che esso consentiva.
Nell’opinione pubblica e tra gli operatori dell’ambito scolastico ha
dominato l’impressione (per alcuni la certezza) che la
razionalizzazione sia succube delle ragioni economiche più che di
quelle pedagogiche e didattiche. Il cortocircuito tra revisione
dell’organizzazione scolastica e tagli del personale e del tempo scuola
è l’espressione di una temperatura interna con cui sono avvertiti i
provvedimenti di questo governo. Il collegamento, a ragione veduta, non
ha molti fondamenti, ma è sufficiente ad avvelenare il clima interno ai
collegi docenti.
Per fare alcuni esempi, il ritorno al maestro prevalente nella scuola
primaria (invocato dopo la constatazione della inefficacia didattica
della pluralità dei docenti per classe) ha permesso di liberare
disponibilità che hanno garantito l’attivazione di nuove classi a tempo
pieno sul territorio nazionale (782 nell’a.s. 2010-11). Eppure
l’impostazione plurima di orari settimanali a 27, 30, 40 ore ha causato
spesso il blocco della programmazione nei circoli didattici non
abituati a fare i conti con flessibilità e spezzoni di orario.
Nella scuola superiore, un’importante riforma, già avviata nelle prime
classi di questo anno scolastico, ha ridisegnato il volto di licei,
istituti tecnici e istituti professionali in nome di uno slogan
semplice e condivisibile: l’attività didattica è da modulare in
rapporto ai profili in uscita degli studenti, quindi meno ore di
insegnamento frontale non coincidono con il decremento delle ore di
tempo scuola, essendo state riportate alla misura dei 60 minuti le ore
di lezione.
Eppure anche in questo caso, pur alla presenza di rilevanti elementi di
innovazione dei contenuti dei percorsi, gli istituti scolastici non
sempre, tranne rare eccezioni, hanno gestito al meglio l’autonomia e la
flessibilità loro concessa. Indotti per lo più a spostare blocchi di
ore da un anno all’altro, da una disciplina all’altra che non a
organizzare, anche per le oggettive difficoltà, l’organico di istituto
della cui necessità peraltro si continua a discutere in sede
ministeriale.
Anche i fatidici tagli del personale docente nel 2010-11 sono stati
inferiori di circa 6mila unità rispetto agli oltre 25mila attesi, in
gran parte compensati dai pensionamenti e dalle nuove immissioni in
ruolo: ciò nonostante tutta la categoria docente si è sentita colpita,
complice anche l’operazione sugli scatti di anzianità, prima tolti poi
restituiti, che non ha certo rasserenato l’ambiente.
E proprio quest’ultimo episodio è emblematico della difficoltà a
tradurre in pratica il tema del merito. Alla valorizzazione della
professionalità docente erano destinati i risparmi accantonati in
seguito alle misure di razionalizzazione, come più volte il ministro
ebbe a dichiarare. Ora invece gli stessi accantonamenti servono a
compensare il mancato blocco degli scatti di anzianità, di modo che
poco resta per la rivalutazione della professionalità docente (per ora
solo un progetto sperimentale, comunque interessante).
La prova provata, in altri termini, del difficile aggancio (per non
dire impossibile) di revisione e rilancio dello stesso soggetto, mentre
sullo sfondo dell’attuale fase di politica scolastica restano i
cambiamenti che potrebbero fare da volano a tutto il resto: il
regolamento sulla formazione iniziale dei docenti (ora presso la Corte
dei Conti) e il nuovo sistema di reclutamento degli insegnanti, ancora
da disegnare.( di Fabrizio Foschi da Il sussidiario )
redazione@aetnanet.org
|
|