Insegnanti, tutti brava gente?Eroi, fannulloni, insegnanti
Data: Lunedì, 29 novembre 2010 ore 22:30:00 CET Argomento: Rassegna stampa
È tanto tempo che
ho smesso di professare la religione “insegnanti, tutta brava gente”.
Ho dismesso quella lettura un po’ romantica, un po’ utopica che – nei
primi tempi della mia collaborazione su quotidiani (10 anni fa) – mi
sembrava il modo più efficace per esigere quel rispetto che sentivo di
meritare non solo per la passione e l’impegno con cui mettevo a
disposizione le mie competenze, ma anche per la funzione –
semplicemente – che avevo deciso di svolgere all’interno della società:
la più politica, nel senso letterale del termine, se pensiamo al
concetto di cittadinanza. Quella le cui prerogative sono scandite
limpidamente e semplicemente dalla nostra Costituzione.
A poco a poco ho cambiato parere. E mi
sono accorta che l’abbassamento dei livelli di competenze, i salari con
un potere d’acquisto sempre più avvilente, lo scarso investimento sul
ruolo del docente e sulla scuola pubblica che ha – trasversalmente,
purtroppo – scandito le politiche scolastiche degli ultimi lustri,
hanno avuto effetti negativi sulla motivazione di molti. Il
disagio cresce quotidianamente, insieme alla scelta di alcuni di fare
dell’insegnamento la sinecura che garantisca di portare a casa uno
stipendio con uno sforzo a basso costo.
D’altro canto, di persone serie – è sotto gli occhi di tutti – ce
ne sono molte in giro. Questo lo sanno benissimo anche gli sconsiderati
cantori dell’epica del fannullonismo che stanno al Governo. E infatti
assieme alla caccia al fannullone hanno inaugurato l’epoca delle
rappresaglie alla libertà di pensiero, alla laicità dell’insegnamento,
alla autodeterminazione dei docenti rispetto alle procedure bizantine e
poco legittime che hanno scandito fasi e trasformazione in testo di
legge della “epocale riforma”.
Insegnanti: eroi o fannulloni?
La perdita di una funzione culturale e di uno statuto sociale dei
docenti di una società che si alimenta di ben altri miti, sono
sintetizzati da due estremi, altrettanto demagogici e occhieggianti a
consensi opposti, che danno in maniera analoga il senso di una
professione che non riesce più a trovare una collocazione significativa
all’interno di questa società: qualche giorno fa, durante la
trasmissione di Saviano e Fazio, Bersani – certamente animato da ottime
intenzioni – ha chiamato “eroi” i professori che vanno in cattedra
tutti i giorni; d’altro canto, è a tutti nota la triste iconografia del
fannullon-sessantottino tanto cara a Brunetta e soci. Si tratta di due
rappresentazioni che denunciano la perdita di contatto tra la società e
chi continua a svolgere questo lavoro con passione e responsabilità – e
siamo in tanti. Si tratta di una società che non riesce nemmeno più a
individuare forme linguistiche – che non siano esageratamente
encomiastiche o impudicamente offensive – per definire una funzione che
pretende rispetto e considerazione, non idolatria o dileggio.
In questo smarrimento del senso, in questo patto infranto – quel patto
che ha consentito cooperazione, idem sentire, condivisione tra il
dentro e il fuori della scuola, negli anni che hanno reso solide le
basi della nostra democrazia – gli insegnanti oscillano tra una
sfiduciata dismissione culturale, che accompagna quella sociale; e un
ostinato esercizio della vocazione missionaria che molti di noi hanno;
quella vocazione (di norma non corroborata da sorveglianza
sull’esigibilità dei diritti) che ha consentito – nonostante la
gestione catastrofica dei governi degli ultimi anni – alla scuola di
andare avanti comunque, tentando di tamponare e di neutralizzare i
danni che gli strateghi delle politiche dell’istruzione producevano
impunemente.
Nessuno dei nostri politici ha pagato il conto di errori marchiani
(l’abbassamento dell’obbligo scolastico, la diminuzione drammatica
delle competenze di lettoscrittura nei quindicenni scolarizzati nel
nostro Paese), di scoop ad uso della stampa che si sono tradotti in
nulla o – peggio – in evasione delle normative (Cittadinanza e
Costituzione, il portfolio). A nessuno è stato presentato il conto di
cambiamenti continui – traumatici o a colpi di cacciavite – che la
scuola ha subito protestando o no, ma troppo spesso sostituendo
all’opposizione e alla condivisione della resistenza l’adattamento
(responsabile o di comodo) alle novità.
Di chi è la responsabilità di giornate spese in ambienti spesso
insicuri, in condizioni talvolta fatiscenti, nella penuria di materiale
di uso quotidiano, dalla famosa carta igienica al toner per la
stampante? Sono responsabilità fluttuanti, che non sappiamo o
preferiamo non assegnare a nomi e cognomi, alle quali – con
camaleontico spirito di adattamento – siamo addestrati ad adeguarci. E
così, giorno dopo giorno, la scuola è diventata quello che è. Nella
rinuncia ormai consolidata anche a quelle forme di compartecipazione e
di condivisione – dopo lo splendido canto del cigno della
manifestazione del 30 ottobre 2008 – con i nostri studenti; vittime,
loro totalmente incolpevoli, della dissipazione istituzionalizzata
della scuola pubblica; e, con essa, del principio di uguaglianza e del
diritto allo studio.
Il disegno di legge Aprea
Sono 2 anni che – oltre che della gestione di una dilettante allo
sbaraglio che occupa per meriti totalmente misteriosi la poltrona del
ministero, ma non fa altro che parlare di merito e premialità, in una
inspiegabile, sfacciata contraddizione – che si parla del disegno di
legge Aprea, l’insidia sopita (stenta ad essere sferrata) per
sostanziali disaccordi interni alla maggioranza. Un disegno di legge
che si declina su due punti sostanziali: l’autogoverno della scuola e
la condizione dei docenti. Le scuole vengono trasformate in fondazioni,
istituti di diritto privato. Lo Stato garantisce loro una cifra fissa e
identica per tutte, ma le aziende o gli enti, associazioni o utenti
potranno contribuire con finanziamenti. Tale condizione – tra tutti i
possibili scetticismi rispetto alle concrete velleità di entrare come
finanziatori di un’istituzione scolastica – configura la possibilità
non solo di privatizzare qualunque scuola, ma di creare immense
disparità tra istituti, a seconda del livello ordinamentale,
dell’utenza, della collocazione nel territorio.
Al consiglio di istituto – attraverso una rivisitazione dei decreti
delegati – verrà sostituito un consiglio di amministrazione (nel quale
non sono più compresi gli Ata), di cui farebbero parte rappresentanti
degli enti locali e del mondo del lavoro e delle professioni. Non è un
caso che questo percorso (di cui non è difficile individuare, oltre che
le criticità rilevate, i danni in termini di ingerenza sulla libertà di
insegnamento) rappresenta l’abiura definitiva al concetto di Scuola
della Repubblica, di scuola della Costituzione e della cittadinanza
democratica.
La carriera dei docenti – la cui formazione iniziale è concepita sul
modello 3+2, con un corso universitario caratterizzato per il 75% da
crediti di tipo contenutistico-disciplinare e solo per il 25% di tipo
relazionale, didattico, pedagogico, cui seguirà un anno di tirocinio
validato dal giudizio del dirigente, dopo il quale il candidato potrà
iscriversi ad un albo rigorosamente regionale – sarà articolata in 3
livelli: iniziale, ordinario ed esperto.
Gli aumenti stipendiali saranno vincolati all’anzianità e
all’appartenenza al singolo livello, determinato da concorsi banditi da
ciascun istituto. Si propone così, oltre che un aggravio di lavoro
difficilmente sostenibile dalle segreterie, fiaccate dai tagli degli
Ata, un sistema di reclutamento e di progressione di carriera
improntati a “cordate” interne più o meno di potere, meccanismo non
dissimile da quello che il centro destra continua a dichiarare di voler
debellare all’università.
Infine, saranno soppresse le Rappresentanze Sindacali Unitarie e verrà
istituita una specifica area contrattuale per i docenti. Ecco, nel
progetto, il desolante passaggio dalla scuola della Repubblica
(statale, laica, pluralista, inclusiva, integrante) alla scuola privata
(confessionale, aziendalista, esclusiva, “omologata”). Qui si vanno a
minare definitivamente i cardini dello stato sociale come frutto del
patto di solidarietà alla base della Carta, e si scongiura ogni
possibilità di affidare alla scuola funzioni emancipanti rispetto alle
condizioni socioeconomiche di partenza di tutti e di ciascuno.
Il disegno di legge Goisis
Ma l’insidia non è inferiore se cambiamo proposta di legge: soprattutto
se a sferrarla è un partito in ascesa costante e apparentemente
inarrestabile. Nel Nord del Paese si sta attentando – prima di tutto –
al principio di uguaglianza, sancito dalla Costituzione anche
attraverso la scuola, quella degli artt. 33 e 34, attaccando diritti
individuali e collettivi. La devoluzione della scuola rischia di
violare la prevalenza assoluta dei 12 articoli che costituiscono i
Principi Fondamentali rispetto agli altri e a loro eventuali revisioni.
La riscrittura dell’art. 117 del Titolo V, insomma, ha assegnato alle
regioni competenze su alcuni ambiti (tra cui l’istruzione), con il
rischio che forzature politiche li disciplinino violando quei Principi
Fondamentali.
La diversa realtà socio-culturale delle singole regioni non deve
tradursi in alterazione dell’impianto nazionale, configurando 20
sistemi scolastici differenti. È questa, invece, la ratio del ddl
Goisis, altro spauracchio che incombe sulla scuola pubblica italiana e
sull’unitarietà del sistema scolastico nazionale: albi regionali di
insegnanti, dirigenti e Ata (reclutati solo tra i residenti); docenti
dipendenti non più dallo Stato, ma dalla regione. Condizioni
contrattuali differenziate. Quote di insegnamenti sulla conoscenza del
territorio di appartenenza; 3 organi scolastici: dirigente, consiglio
dell’Istituzione, collegio dei docenti. Scuole autonome, finanziate
direttamente dalla regione, con contributi da famiglie, enti pubblici e
privati.
Tra regionalizzazione discriminatoria e neoliberismo galoppante, queste
sono le prospettive. A meno che lo scenario politico non cambi. E
allora sarà il caso di valutare il programma sulla scuola di
un’opposizione che – fino ad oggi – ha espresso auspici e
stigmatizzazioni certamente comprovabili, ma altrettanto prevedibili,
senza mostrare una elaborazione, uno studio approfondito e consapevole
del come inaugurare un rinnovamento reale e costruttivo in alternativa
alle “riforme” fatte solo in funzione dell’abbattimento dei costi.
Se le iniziative di Aprea e Goisis hanno propiziato organizzazione di
convegni, dibattiti, seminari, mobilitazioni, nonostante siano ancora
proposte di legge, non altrettanto si è fatto per un ben più grave
pericolo che non solo minaccia, ma è penetrato anzitempo – anche grazie
alla complicità di dirigenti scolastici zelanti, esecutori, o meglio,
anticipatori acritici di direttive pretestuose – nella scuola italiana.
La legge Brunetta
La legge 15/09 (legge Brunetta) è andata a rivisitare la legge 165/2001
(Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni) occupandosi di molteplici temi. Innanzitutto
blocca il processo di delegificazione ad opera dei contratti,
rilegificando il rapporto di lavoro nella PA (prevalenza della legge
sul contratto). Il lavoro svolto in senso opposto negli anni ’90 viene
sostanzialmente annullato, prevedendo una progressiva convergenza degli
assetti regolativi del rapporto di lavoro pubblico a quello privato.
La legge configura un organismo estremamente complesso (che si articola
su contrattazione integrativa e collettiva e funzionalità delle PA;
valutazione delle strutture e del personale e principio di trasparenza;
merito e premialità; dirigenza pubblica; sanzioni disciplinari e
responsabilità dei dipendenti pubblici) che – per essere applicato in
toto al comparto scuola – avrà bisogno di una produzione normativa
enorme. Il cambiamento però è già in atto, e segnali sempre più netti
ne sono testimonianza allarmante, nonostante sulla legge prevalga
ancora il nostro contratto, in vigore fino al 2012 (ma l’art. 65 della
legge prevede l’adeguamento ai contenuti del decreto entro il
31/12/10). Molti si sono già accorti che effetti immediati della legge
nella scuola sono stati la decurtazione, durante le assenze per
malattia, del compenso, così come l’alterazione delle fasce di
reperibilità durante la stessa malattia.
Il DLgs 150/09, in attuazione della legge 15/09, va a modificare
profondamente il sistema disciplinare nel pubblico impiego. Il primo
radicale cambiamento determinato dal dlgs consiste nell’estensione del
potere sanzionatorio del dirigente scolastico: uno strumento che solo
alcuni sono in grado di gestire con intelligenza e cultura democratica.
In precedenza, l’unica sanzione a disposizione del dirigente scolastico
era la famosa “lettera”, avvertimento scritto, riservando al superiore
gerarchico la possibilità – in caso di infrazioni gravi – di
intervenire più severamente. Con la nuova normativa i dirigenti
scolastici possono infliggere al docente fino a un massimo di 10 giorni
di sospensione dal servizio, con perdita della retribuzione nel periodo
corrispondente. Ecco uno dei modi con cui si è deciso di inseguire le
esigenze di produttività ed efficienza della Pubblica Amministrazione,
uno dei cavalli di battaglia di questo Governo: spot appositi ci
tempestano tutti i giorni sulla possibilità di accreditarsi presso la
scuola dei propri figli per accedere alle assenze online, valutazione
online e tanti altri “gadget tecnocratici”, rassicurante contropartita
della incapacità – durata per anni e tuttora valutabile – della
mancanza di una reale cultura del digitale nella scuola italiana.
Indipendentemente da annunci trionfalistici e innamoramenti periodici
per nuovi totem tecnologici, nella realtà permane un’avvilente
incapacità di emancipare le TIC dalla dimensione esecutiva per renderle
effettivamente viatico di cultura, democrazia, emancipazione. Ma, lo
sappiamo bene, tutto quanto fa spettacolo. E così affidare ai dirigenti
scolastici il randello della sanzione grave è la carta che nella
asfittica visione esistenziale e professionale di coloro che ci
governano risponde ad esigenze di “sicurezza” e di apparente
efficientismo che tengono risaputamente e ovunque a bada fette intere
di popolazione. Atto finale di quel percorso di karakiri che la scuola
ha intrapreso, da questo punto di vista, accettando il passaggio da
preside a dirigente scolastico e snaturando – esattamente come il modo
in cui è stata interpretato il percorso dell’autonomia, che avrebbe
avuto premesse ben diverse e ben più promettenti – la peculiarità della
scuola: come luogo fisico, come luogo simbolico, come istituzione.
Interrogarsi se i dirigenti scolastici siano oggi in grado di
esercitare con equilibrio la funzione che la legge affida loro è
inutile.
Quello che mi è capitato di sentire, di vedere, di leggere è stata una
progressiva – quanto naturale – tendenza a sopportare con minore
democrazia le posizioni di dissenso, quando non a tendere ad esercitare
in maniera egemonica il proprio ruolo. Notarlo non significa postulare
garantismo acritico ed impunità ad oltranza; ma è indubbio che la
dilatazione delle prerogative del dirigente ridimensionano le
prerogative del comparto scuola rispetto agli altri comparti della PA,
restringono ad una funzione più impiegatizia il ruolo del docente.
Alcuni dirigenti, solerti esecutori del Brunetta-pensiero, hanno deciso
di fare della patologia del sistema (il fannullonismo, l’incompetenza,
l’assenteismo, quelli che – secondo le parole di chi ci governa –
rappresenterebbero i tratti distintivi della nostra professionalità) la
norma, alienando alla dirigenza quel ruolo di primus inter pares, con
grave nocumento per l’autonomia professionale dei docenti e diffondendo
un clima di sospetto certamente contrario a quello che dovrebbe
caratterizzare l’atmosfera di ogni luogo di lavoro, ma specialmente
della scuola. Ma anche i dirigenti hanno i loro problemi, oltre a
quello – fondamentale – di interpretare una funzione estremamente
complessa, specie se non esercitata con le pistole e il cappello da
sceriffo: a quando il distintivo? Le chiacchiere, quelle ci sono.
Il Codice Disciplinare per i dirigenti scolastici
Ed è proprio rivolta a coloro che non si piegano alla logica del Far
West la circolare del 21 ottobre, il Codice Disciplinare per i
dirigenti scolastici: criticare pubblicamente la riforma Gelmini può
costare ai dirigenti fino a tre mesi di stipendio. E alzare la voce nei
confronti di un genitore una multa fino a 350 euro. Stessa sanzione, da
150 a 350 euro di multa, per i capi d’istituto che andassero in giro
senza cartellino di riconoscimento o che non avessero provveduto ad
apporre una targa con nome e cognome davanti alla porta della propria
stanza. Eccolo il distintivo! D’altra parte le dichiarazioni di
Marcello Limina che – dalla poltrona dell’USR Emilia Romagna –
declinava il tristissimo Gelmini-pensiero sono state eloquenti come
segno di una determinazione assoluta a stroncare qualsiasi capacità
critica o qualsiasi atteggiamento di dissenso. Come potrebbero
imbrigliare altrimenti le menti (non sempre vigili e reattive, ma
qualche volta sì; non sempre critiche e attente, ma qualche volta sì;
non sempre propense alla vigilanza e all’indignazione, ma qualche volta
sì) di un milione di lavoratori?
La repressione del pensiero critico si diffonde tra i docenti
attraverso forme sanzionatorie rispetto alla libertà di pensiero; nei
confronti degli studenti, attraverso l’impoverimento programmatico di
qualsiasi funzione culturale, educativa, di sollecitazione alla
cittadinanza attiva attribuita alla scuola, ridotta a collettore di
saperi poveri e impoveriti dall’usura dei tagli e dalla rassegnazione
dei docenti: ecco serviti consumatori acritici ed esecutori inerti in
un colpo solo.
I premi e il merito
Per quanto riguarda premi e merito (altre 2 parole-cult dell’epica
striminzita e meschina contenuta nella legge Brunetta), è previsto un
apposito Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri relativo ai
docenti. Intanto Mary Star saluta come “giornata storica” l’inizio di
una farfugliante sperimentazione – alla quale già le scuole più accorte
stanno rispondendo con apposite delibere nei collegi – per nominare le
scuole e gli insegnanti dell’anno (attraverso una serie di descrittori,
tra cui l’indice di gradimento di famiglie e alunni, format Maria de
Filippi), cui si destineranno ricchi premi e cotillons.
In questo strano Paese che non è ancora in grado – a 3 anni da un
documento di Fioroni in merito – di certificare seriamente e
oggettivamente le competenze degli alunni, come l’Europa chiede di fare
e fa da anni – la rincorsa a misurazione che non transiti attraverso
una seria cultura della valutazione (inaugurata nei sistemi scolastici
di alcuni Paesi UE più di 30 anni fa attraverso studio e finanziamenti)
appare un re-styling frettoloso e pericoloso. Come tener conto della differenza abissale
che implica l’insegnare in una zona o nell’altra del Paese? Come
non trasformare le scuole in meccanici progettifici, per essere più
concorrenziali sul mercato della premialità? Come ponderare i risultati
di un test Invalsi a Scampia o ai Parioli a Roma? Come evitare il
diffondersi di competizione tra individui e gruppi? Non ci s’interroga,
infine, sul fatto che l’”utenza”, talvolta, potrebbe non avere ragione?
Basta pensare alle ristrettezze in cui gli istituti versano e ai salari
degli insegnanti per intuire che la lotta sarà tra dediti al
volontariato o seguaci del neoliberismo.
Che dice chi potrebbe a breve
governare il Paese?
Ecco la scuola in cui viviamo, giorno per giorno. Dalle minacce
secessioniste alle proiezioni neoliberiste; dall’autoritarismo
strisciante alla censura della libertà di pensiero; da una premialità
che finge di ignorare le condizioni in cui in molte scuole
quotidianamente si svolta la giornata e che innesca una competizione
senza competitività; dal superamento volontario di ogni capacità di
rendere la scuola un luogo di emancipazione e di mobilità sociale,
riservandole – viceversa – la funzione di blindare (attraverso il
proprio corto respiro) le condizioni di partenza con una “riforma” che
va a colpire soprattutto le fasce più deboli (dagli studenti dei
professionali ai precari) alla rinuncia definitiva della scommessa di
civiltà dell’obbligo scolastico a 16 anni: ecco la nostra scuola, oggi.
Cosa ne direbbero don Lorenzo Milani, Pierpaolo Pasolini, Piero
Calamandrei e Enrico Berlinguer? È inutile chiederlo, la risposta la
conosciamo già. Quello che potrebbe essere utile, oggi, è non solo
domandare, ma esigere da chi potrebbe da qui a breve candidarsi a
governare il Paese di dare risposte chiare e definitive a queste e ad
altre questioni. Una parte del mondo della scuola ha bisogno di
convincersi che – per qualcuno – cancellare questa deriva di incultura
possa rappresentare una priorità. (di Marina Boscaino da Flc-Cgil)
redazione@aetnanet.org
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