Libertà ed educazione.
Data: Sabato, 16 ottobre 2010 ore 06:00:00 CEST Argomento: Redazione
Ci sono cose al mondo che spesso si crede di conoscere benissimo;cose
che si ritengono assodate, naturali, persino banali nella loro comune
lapalissiana chiarezza. Diremo, con Shaskespeare, che “ ci sono più
cose tra il cielo e la terra che tutta la nostra filosofia”.
Una di queste è l’idea della libertà; eppure se provassimo a chiedere a
chiunque una sua definizione ben pochi riuscirebbero a rispondere in
modo esauriente,forse, riuscirebbero a portare degli esempi più o
meno consoni, un po’ come l’affermazione aristotelica della possibilità
di parlare del “cavallo” ma dell’impossibilità di parlare a proposito
di cosa sia, e se esista, l’idea dell’”equinità.”
E partiamo dunque dall’esempio, se vogliamo che il nostro discorso sia
fruibile e comprensibile.
Chi è l’uomo libero?Un uomo che non ha padroni, che segue con coerenza
le proprie scelte, che non si lascia condizionare dagli altri, che si
sente nel diritto di sostenere le proprie opinioni, che è indipendente,
autonomo, che non cede ai ricatti morali e materiali… ma soprattutto un
uomo è libero quando non si riduce ad essere lo schiavo di se stesso.
Terribile cosa è questa sorta di “ cattività babilonese”
autoreferenziale; delle peggiori cose è capace chi ne è soggetto. Eh
si, perché nell’individuo sono presenti tante virtù ma anche tanti
limiti e tanti “ego” ad essi subordinati; e la cosa davvero curiosa è
che questi limiti non sono posti da altri che da se stessi. Spesso si
sente dire che l’educazione, la vera educazione rende liberi.
Ma la vera educazione deve soprattutto mirare alla conoscenza di se
stessi; i “miracoli” dell’educazione avvengono, come già Maria
Montessori aveva dimostrato nel secolo passato, quando all’individuo
viene restituita la pienezza, la padronanza e la consapevolezza
di sé. Quando non esiste un certo tipo subordinato più che di confronto
con l’altro, con l’adulto, un confronto che si riduce spesso ad
una sconfitta della stima di sé, allora viene presentato davvero
il senso della libertà, di una libertà di essere prima che di agire e
in cui semmai l’azione è conseguente dalla massima realizzazione del
poter essere.
Nessun uomo può definirsi libero quando si è schiavi di interessi
monotematici, quando un concorso, per fare un esempio, diventa l’unica
ragione di discussione, un interesse che lede il proprio stesso
interesse alla vita, all’autoconservazione, un interesse dettato da
un delirio paranoico che assorbe ogni altro motivo di esistere;
che annulla le bellezze siderali, la natura e tutto il mondo attorno
che non esiste per essere ignorato ma tutt’altro per destare, di
tanto in tanto, anche un minimo interesse anche nei cuori più induriti.
Ci si illude forse che per curare i propri interessi bisogna
pensarci giorno e notte, quando ,piuttosto, un salutare distacco è
l’unica cosa che dà visione d’insieme, capacità di riflessione “a
freddo”, con lucidità e col minimo coinvolgimento emotivo.
Ecco, l’esaurimento nervoso non viene col troppo lavoro né tantomeno
col troppo studio… l’esaurimento nervoso viene con un atteggiamento
monotematico verso la vita. Come i terreni messi solo a monocoltura
dopo un certo periodo cominciano inevitabilmente ad inaridirsi.
Che i soldi siano la rovina del mondo lo sanno anche le pietre ma
nessuno non li considera come un limite ma sempre come un enorme
beneficio. Per carità, non bisogna essere ipocriti e siccome la
società umana è strutturata in un certo modo, non se ne può fare a
meno. Ma si può fare a meno , però, di riempire di soldi dei palloni
gonfiati, pieni di tutto tranne che di se stessi, dove l’unico peso che
si portano dietro è l’insostenibile onere del proprio vuoto.
Volete dunque un governo virtuoso? Togliete i soldi dalla
politica. Pagate un dirigente quanto un operaio e non ci saranno più
concorsi da rifare, gente che li vince senza titoli, baruffe degne dei
volatili che vivono nei pollai ma che qualificano molto male chi si
definisce essere umano. Una perfetta epurazione. Una perfetta
educazione al vero senso della libertà; l’uomo, non più reso cieco e
limitato dall’interesse economico , finalmente si riappropria di se
stesso.
E’ ovviamente una provocazione – absit iniuria verbis - ma ogni
provocazione, come ben si sa, nasconde anche delle profonde verità.
Ecco, se adesso provassimo a definire cosa sia esattamente “libertà”
forse potremmo timidamente azzardare che sia la padronanza di se
stessi:la realizzazione della vera “volontà di potenza” di ogni uomo.
Non volontà di “potere” ma di “potenza” che è ben altra cosa, perchè
indica la potenzialità, quel valore latente che tutti abbiamo ma
che nessuno mai usa interamente perché troppo assorbito a inseguire le
proprie fissazioni monotematiche.
Fortunatamente, nel nostro sistema giudiziario non è contemplata la
possibilità di fare processi alle intenzioni ma solo ai fatti e se è
vero che i fatti vanno interpretati è anche vero che “contra facta non
valet argumentum”. E cosa denota un fatto? Innanzittutto la sua precisa
connotazione, che il senso giuridico è fortunatamente molto diverso da
quello comune che confonde lucciole per lanterne, un fatto ha , per
così dire, “un nome”, e possibilmente anche un “cognome”, una
specificazione oggettivamente appurabile, un fatto non può essere
generico, non può essere un’affermazione che può riferirsi ad una
vasta categorie di cose assimilabili agli stessi criteri
d’individuzione. Un fatto è sempre soggetto ad un preciso principio
individuationis. In mancanza di tali elementi si potranno avere solo
“intenzioni”, ed è ridicolo redarguire un’intenzione in potenza, forse,
ma non in atto, un’illazione, un’impressione, una soggettiva sensazione
da buon senso comune del contadino, forse, ma non del giurista.
Eppure può succedere per fortuito e miracoloso caso della vita che
l’intenzione si traduca in atto e quando questa necessità si realizza,
per via di un retto giudizio, si realizza il perfetto connubio tra
l’individuo e la sua libertà.
La libertà, in definitiva, così almeno ci sentiamo di poter
sintetizzare, è ciò che rende possibile la vera espressione di ogni
individuo, non l’arbitrio, non la “cattività babilonese”, l’esilio da
se stessi, ma il ritorno a qualcosa di primigenio, primordiale
che esisteva in massima parte nelle società tradizionali, che si
condensava in poche ma buone leggi, e, in definitiva nell’armonia tra
il sociale e l’individuale.
Per concludere, aggiungiamo che non esiste libertà se non c’è
soprattutto libertà d’opinione. Il reato d’opinione in Italia si è
estinto col fascismo… anche se qualcuno pare che ancora non lo sappia.
E tutti quei verbi che esprimiamo al modo congiuntivo e che indicano,
appunto, una credenza, un considerare, reputare, un sentire….
Insomma,una propria personale opinione, non sono soggetti a nessuna
particolare imputazione se non a quella di una naturale ed anche, in
certi casi auspicabile e dialettica confutazione. Così possiamo ben
dire che la graduale scomparsa del modo congiuntivo dalla nostra lingua
è monito , chissà, di una graduale scomparsa della libertà; come,
si dice, la scomparsa delle api preannunci grandi disastri naturali,
anche la scomparsa di una modalità di un verbo può indicare, purtroppo,
la fine di una importante modalità di essere ed esistere.
Tecla Squillaci
Stairwayto_heaven@libero.it
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