Apprendistato per l'obbligo di istruzione: dall'intesa lombarda una impostazione ideologica e regressiva
Data: Giovedì, 14 ottobre 2010 ore 13:46:52 CEST
Argomento: Sindacati


L’intesa sull’apprendistato sottoscritta dalla Regione Lombardia con i Ministeri del Lavoro e dell’Istruzione, dell’Università riguarda i percorsi formativi per l’espletamento del diritto dovere di istruzione e formazione (in attuazione dell’art. 48 del D.lgs 10/09/2003 n. 276). Ma il vero punto di interesse di questo accordo è nelle parti che fanno riferimento alla possibilità di assolvere all’obbligo di istruzione attraverso un contratto di apprendistato, la cui età di accesso, precisa l’allegato tecnico, sarà stabilita dalla «normativa di legge vigente al momento della stipulazione del singolo contratto di lavoro».
Il senso politico della vicenda è evidente: Formigoni, Gelmini e Sacconi cercano di preparare un terreno favorevole alla norma contenuta nel progetto di legge «collegato-lavoro», nel quale è stata inserita la possibilità (emendamento Cazzola) per i quindicenni di assolvere all’obbligo di istruzione nell’apprendistato. In realtà i nodi della questione non sono sciolti da questo accordo, a partire dall’età minima di accesso al lavoro che rimane fissata a 16 anni, né la norma contenuta nel «collegato-lavoro» la riporta a 15. Anche dopo questa intesa, la decisione di utilizzare il contratto di apprendistato per costruire un terzo canale formativo (dopo la scuola e la formazione professionale regionale), finalizzato all’assolvimento dell’obbligo di istruzione, continua ad apparire come una soluzione iniqua e impraticabile.
Gli obiettivi dell’obbligo di istruzione non si raggiungono con l’apprendistato
Anche nella nuova versione prospettata dall’intesa lombarda, l’apprendistato rimane uno strumento inadatto per realizzare percorsi idonei a raggiungere gli obiettivi formativi previsti a conclusione dell’obbligo di istruzione. A partire dal monte ore annuo di 400 ore di formazione, una risorsa temporale insufficiente per l’apprendimento delle competenze culturali di base fissate quale esito in uscita dell’obbligo di istruzione, anche perché, secondo l’accordo lombardo, l’attività formativa può essere realizzata anche integralmente in azienda. Per i percorsi scolatici o di formazione professionale sono previsti monte ore annui di 1000/1100 ore, mentre per l’apprendistato dovrebbero essere equivalenti 400 ore, svolte anche integralmente in produzione con affiancamento di un tutor o più semplicemente del titolare dell’azienda. L’accordo non garantisce nemmeno che le 400 ore siano costituite da formazione formale, intenzionalmente progettata, con obiettivi, contenuti e valutazione degli esiti. Se fosse garantita la formazione formale, l’impianto prospettato dall’accordo lombardo potrebbe essere utile per l’apprendimento di competenze tecnico-professionali ai fini del raggiungimento di una qualifica professionale, non certo per la cultura di base necessaria alla formazione del cittadino.
La formazione culturale di base non può che competere alle istituzioni formative – e non alle aziende – e questo vale anche per i percorsi formativi finalizzati all’apprendimento delle competenze chiave di cittadinanza basate, come indicano le norme sull’obbligo di istruzione, sui quattro assi culturali fondamentali (linguaggi, matematico, scientifico-tecnologico, storico-sociale). Riconoscere la necessaria titolarità delle istituzioni formative per i percorsi dell’obbligo di istruzione non significa che non si possa valorizzare la valenza formativa del lavoro attraverso progetti di integrazione e di alternanza scuola-lavoro. Privi di un sufficiente bagaglio culturale di base, i percorsi per l’obbligo in apprendistato saranno inevitabilmente incapaci di assicurare ai giovani la possibilità di continuare la formazione e di evitare la rapida obsolescenza delle abilità professionali conseguite.
Prevale l’ideologia aziendalista
Nell’intesa lombarda non solo non sono garantiti per i giovani apprendisti percorsi di formazione formale, ma non sono nemmeno individuati i requisiti per riconoscere la capacità formativa delle imprese, senza i quali un quindicenne potrebbe trovarsi a lavorare in un luogo di lavoro privo degli spazi, delle strutture e delle professionalità specifiche necessarie per realizzare una effettiva attività formativa. Così come manca ogni indicazione di raccordo con le istituzioni scolastiche ai fini di un loro coinvolgimento in percorsi integrati con le strutture accreditate. L’unico vincolo qualitativo indicato dall’allegato tecnico è rappresentato dal tutor aziendale, spesso il titolare stesso dell’impresa, cui è affidato il compito di definire il Piano formativo Individuale «coinvolgendo in maniera protagonistica in questo percorso il giovane e la sua famiglia.». Alla stessa figura aziendale è affidato il coordinamento generale delle diverse attività previste dal percorso formativo complessivo, in attuazione del piano formativo individuale dell’apprendista. E, se non bastasse, gli è chiesto di eseguire il monitoraggio e la valutazione delle attività e del raggiungimento degli obiettivi formativi previsti dal piano formativo individuale, che potrebbe prevedere, come abbiamo già detto, l’ipotesi che le 400 ore di formazione siano svolte tutte all’interno dell’azienda. Solo alla fine di tutto questo totale affidamento del percorso formativo del giovane ad un datore di lavoro (spesso purtroppo non molto acculturato), con l’unico controllo della propria famiglia (spesso purtroppo in difficoltà con le questioni formative), appare un soggetto accreditato del sistema regionale con il compito di valutare e certificare o forse, sarebbe meglio dire, di prendere atto.
Il prevalere dell’ideologia aziendalista, filo rosso di tutto l’approccio del governo ai temi formativi, arriva a far scrivere agli estensori dell’intesa che il lavoro non solo è «mezzo della formazione», ma addirittura è «fine della formazione per l’acquisizione delle competenze chiave di cittadinanza». Secondo Formigoni, Sacconi e Gelmini i giovani apprendisti devono essere formati solo come lavoratori, la formazione della persona consapevole e del cittadino attivo è probabilmente ritenuta un lusso riservato ad altri ragazzi più fortunati.
L’apprendistato fuori dall’ideologia
Una considerazione sulle potenzialità reali del contratto di apprendistato per il diritto dovere (art. 48 Dlgs 276/2003) non può che partire dalla constatazione delle difficoltà che fino ad oggi hanno impedito il suo decollo. Ad oggi, infatti, questa norma non è operativa, manca l’accordo tra le Regioni e i Ministeri del Lavoro e dell’Istruzione e, di conseguenza, i minori possono essere assunti in apprendistato solo nell’ambito della regolamentazione della Legge 196/97. Un ritardo che si spiega anche con lo scarso interesse da parte delle aziende nei confronti di questo istituto contrattuale. Nonostante gli sgravi contributivi, infatti, la maggior parte degli imprenditori trova troppo gravoso il vincolo di almeno 240 ore di formazione esterna, cui si aggiungono le tutele dei lavoratori minorenni nei confronti dei lavori faticosi e nocivi, del lavoro notturno, festivo e degli straordinari. Negli anni scorsi, secondo i dati Inps riferiti al 2006 e 2007, i minori assunti con contratto di apprendistato sarebbero stati circa 50 mila e, di questi, risultano aver partecipato alle attività di formazione esterna (obbligatorie per almeno 240 ore) poco più di 8.800 minori nel 2006, scesi nel 2007 a 6.500. Il rapporto ISFOL 2009 rileva la tendenza ad utilizzare in misura sempre minore l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere e l’aleatorietà della formazione erogata ai minori.
È davvero singolare che si possa pensare di utilizzare, per l’obbligo di istruzione e la lotta alla dispersione scolastica, uno strumento che ad oggi non ha funzionato nemmeno per il raggiungimento del compito più congeniale alla sua natura di formare competenze tecnico-professionali. A meno che il vero obiettivo del governo non sia ancora una volta quello di ridurre i costi: dopo la formazione professionale (anch’essa colpita, come la scuola, dal taglio dei finanziamenti), si apre un altro canale, ancor meno costoso, in cui far assolvere l’obbligo di istruzione alle fasce sociali più svantaggiate. Se invece si assume l’obiettivo di rilanciare l’apprendistato post-obbligo di istruzione a 16 anni, allora. oltre a semplificare e chiarire l’attuale impianto normativo, occorre garantire a tutti i giovani una formazione di qualità, finalizzata al conseguimento di una qualifica professionale. Trattandosi di formazione tecnico-professionale, una parte di essa può anche essere realizzata in imprese dotate di capacità formativa accreditata.
A questo proposito, la CGIL Lombardia, nel corso del confronto precedente l’intesa, ha avanzato una proposta non accolta dai firmatari riguardante il percorso formativo per l’apprendistato 16-18 anni: «un progetto complessivo di alternanza istruzione-formazione-lavoro, dove il lavoro possa diventare l’elemento significativo, ma non unico, di un progetto formativo condiviso, monitorato costantemente da un tutor esterno di una struttura accreditata, in collaborazione stretta con quello interno adeguatamente formato. Progetto dove si possano considerare le unità di competenza, parametri di riferimento verificabili e misurabili, su cui costruire la certificazione che porterà poi alla qualifica professionale, coerentemente con quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di riferimento e dal Quadro regionale degli standard professionali pattuito nella Conferenza permanente Stato-Regioni».
La lotta alla dispersione
Anche nell’accordo lombardo la lotta alla dispersione scolastica (126 mila ragazzi 14-17enni fuori dalla scuola, dalla formazione e dal lavoro) è il leit-motiv principale per far assolvere anche l’obbligo di istruzione nell’apprendistato. Seguendo la logica, secondo cui l’apprendistato è meglio di niente, si rinuncia a offrire l’opportunità di acquisire quelle competenze di base ormai indispensabili per essere cittadini consapevoli e lavoratori occupabili, cioè capaci di riconvertirsi e di acquisire nuove competenze in un mondo del lavoro sempre più mutevole e turbolento. Non ci sono scorciatoie. Per affrontare seriamente il problema della dispersione scolastica si deve innanzi tutto di investire nella scuola pubblica e nel potenziamento dell’autonomia scolastica, invece di aggiungere canali paralleli di serie b e c, destinati supplire le carenze della scuola e a rafforzarne le resistenze al cambiamento.
Per ottenere risultati contro la dispersione scolastica occorre investire nella costruzione di un biennio obbligatorio unitario; cambiare il modo di fare scuola per valorizzare il rapporto tra sapere e saper fare, i laboratori, le esperienze di alternanza scuola-lavoro; diffondere e qualificare i servizi educativi per l’infanzia e difendere i modelli di qualità della scuola elementare (gli interventi di decondizionamento precoce sono i più efficaci); rafforzare i raccordi e la continuità contro le
fratture traumatiche nei passaggi tra i cicli scolatici; attivare le anagrafi degli studenti per intercettare/riorientare chi abbandona la scuola e per conoscere il fenomeno ai fini della prevenzione. (da  http://www.diariodelweb.it/ )

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