Atenei in cris. La riflessione di un preside
Data: Venerd́, 23 luglio 2010 ore 17:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


efficacia mediatica. Prima di giudicare o di proporre ricette bisognerebbe ricostruire criticamente la storia dell’Università italiana almeno negli ultimi trent’anni. Studi non sono mancati, ma hanno avuto poca accoglienza negli organi di informazione. Proverò a individuare qualche snodo cruciale.

Anzitutto la politica del reclutamento, che ha proceduto alternando lunghi periodi di chiusura (quasi) totale a periodi di apertura (quasi) indiscriminata, come la sequenza di giudizi di idoneità dei primi anni ottanta: in pratica assunzioni ope legis. Ne è derivata una composizione disomogenea del corpo docente, con fasce di età troppo rappresentate e generazioni quasi integralmente messe da parte. In secondo luogo la frenesia legislativa che nell’ultimo decennio ha provocato instabilità negli ordinamenti didattici e disorientamento negli studenti. Il tentativo di classificare il sapere ha prodotto i settori scientifico-disciplinari, un sistema che avrebbe richiesto una preventiva e condivisa descrizione della realtà e delle dinamiche della conoscenza. Ma i nostri legislatori non sono neanche lontanamente paragonabili ad Aristotele o a Leibniz. Ne è nato un elenco ipertrofico, alimentato talvolta da pressioni interessate.

In terzo luogo la tendenza ad aprire nuovi atenei e sedi distaccate, spesso per soddisfare le ambizioni delle amministrazioni locali e per creare nuove cattedre. Come si può vedere, le responsabilità dei legislatori si intrecciano con quelle dei professori universitari. Per completare il quadro bisogna dire che, se per l’Università si è speso male, nel complesso si è speso poco, rispetto a quasi tutti i paesi europei: la spesa per istruzione e ricerca in Italia è di poco inferiore all’1% del PIL, un dato lontanissimo dall’obiettivo europeo del 3%. In questo modo non solo non ci avviciniamo all’altro obiettivo, sottoscritto dall’Italia, di aumentare in misura significativa i laureati entro il 2020, ma con ogni probabilità ci allontaneremo molto da quell’obiettivo e dal resto d’Europa. La combinazione di tagli e pensionamenti rischia infatti di svuotare le Università nei prossimi anni. Se i pensionati dei prossimi cinque anni non saranno sostituiti, perderemo circa un terzo dei docenti. Questo comporterà la chiusura di molti corsi di studio e l’introduzione del numero chiuso in molti altri. L’aspetto più preoccupante è che non si potrà procedere razionalmente, in quanto i tagli non distinguono le discipline importanti da quelle generosamente inventate negli anni passati. Chi sta tagliando non usa le forbici da potatura, ma la ruspa.

Quali potrebbero essere le soluzioni? Anzitutto su un punto c’è accordo: occorre intervenire sul sistema universitario. Il Disegno di legge Gelmini presenta aspetti condivisibili e altri molto opinabili: vedremo se il Parlamento lo migliorerà o, come certi segnali fanno presagire, inserirà emendamenti favorevoli a categorie o a gruppi. L’introduzione di un sistema di reclutamento nazionale (la lista di idonei) tende a correggere le storture dei concorsi locali, che hanno spesso facilitato la progressione di carriera di candidati non meritevoli. Ma le regole, per buone che siano, non sono risolutive: bisogna cambiare la mentalità, sentire l’istituzione come propria e lavorare per migliorarla. Un problema che non riguarda soltanto l’Università.

È poi indispensabile introdurre un serio sistema di valutazione. Se l’Università dell’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale era riservata a pochi e comprendeva un numero ristretto di docenti, in genere espressione condivisa della comunità scientifica, l’Università di oggi, con i suoi grandi numeri, esige un sistema di valutazione della didattica e della ricerca. Non soltanto occorre ridurre il fenomeno dei docenti e dei ricercatori inattivi, cioè di quelli che non hanno una produzione scientifica significativa, ma è necessario premiare il merito, anche dal punto di vista economico.

Non si può non ridurre il numero degli atenei e delle sedi distaccate. E, inoltre, occorre razionalizzare i corsi di studio.

Ma riformare e razionalizzare un’Università in sofferenza non devono portare a uccidere il paziente sotto i ferri. Se il taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario per il 2011 non sarà annullato o drasticamente ridotto, la grande maggioranza degli atenei non potrà approvare i bilanci. Se non saranno introdotte norme che riconoscano ai ricercatori meritevoli quella funzione docente che molti di loro esercitano da anni il prossimo anno accademico potrebbe non partire. Se non sarà avviato rapidamente il ricambio del corpo docente il sistema andrà in crisi nel giro di pochi anni. Ma il cambiamento più importante, che richiede l’impegno della classe politica, dei mezzi di informazione e di tutti quelli che operano e vivono nell’Università, avrà bisogno di tempo: l’istruzione e la ricerca devono essere sentiti come un valore, come un investimento e non soltanto come una spesa. Mi permetto di concludere con un riferimento alla disciplina che insegno, la letteratura greca. Quando nel IV secolo a.C. Isocrate invocava il ritorno alla patrios politeia (le istituzioni degli antenati) non si riferiva a una legislazione storicamente determinata, ma a un tempo, forse idealizzato, in cui tutti i cittadini si impegnavano per il bene comune. L’Italia non ha una patrios politeia da vagheggiare, la deve iniziare a costruire e il punto di partenza, nell’Europa della conoscenza di cui facciamo parte, non possono che essere le istituzioni educative.

*Roberto Nicolai Preside della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Roma “La Sapienza” da www.l'unità.it





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