La Gelmini sconfessa la Moratti
Data: Venerdì, 02 luglio 2010 ore 15:00:00 CEST Argomento: Rassegna stampa
Senza citarla
direttamente, il ministro dell’Istruzione boccia la ministra che l’ha
preceduta stroncando la riforma universitaria che porta la sua firma.
Non è che ci volesse molto a capire che il nuovo ordinamento
universitario fa acqua da tutte le parti.
Erano sbagliati innanzitutto i presupposti. Siccome l’Italia tra tutti
i paesi occidentali aveva il più alto differenziale tra giovani
matricole e laureati, la Moratti - ed il governo Berlusconi di allora -
pensò che bastava cambiare le regole del gioco per rimettersi al pari
degli altri paesi (un po’ quello che sta succedendo in questi giorni
con l’indebitamento statale: sì, siamo indebitati come stato, ma
risparmiosi come famiglie). A distanza di anni si è constatato che la
situazione non è cambiata di molto. Chi prima si laureava in quattro
anni, oggi - là dove è previsto il 3+2 - si laurea in cinque se può,
oppure abbandona dopo il titolo triennale, con la conseguenza che il
laureato di primo livello viene considerato un super diplomato o un
quasi laureato, e chi raggiunge la specialistica ha in mano un pezzo di
carta del valore della vecchia laurea quadriennale, ma con un anno di
studi in più.
"La responsabilità - dice il professor Guido Fiegna, membro del
Comitato nazionale valutazione sistema universitario — è in parte
attribuibile alle università che non hanno ridisegnato i corsi,
cambiando la sequenza delle discipline, i tempi e i modi di
insegnamento". Può essere. Quello che hanno fatto bene gli atenei è
stato riuscire a scatenare la fantasia, inaugurando corsi di laurea che
non servivano ad una beata mazza, se non a far cassa con le tasse
d’iscrizione e frequenza. Tant’è che molti di quei corsi col tempo sono
stati soppressi perché i giovani, resisi conto dell’inutilità degli
studi ai fini lavorativi, alla fine li hanno disertati.
Alla riforma Moratti è mancato il passo successivo: collegare la laurea
triennale al lavoro, attraverso il riconoscimento legale dei titoli
nuovi, attraverso l’equiparazione con vecchi titoli analoghi.
Prendiamo il caso di mia figlia, laureatasi con la triennale a Perugia
in Tecniche erboristiche, corso di studi affascinante, dalle belle
speranze, a metà strada tra Farmacia e Scienze forestali. Bene, una
volta uscita ha verificato che neanche a livello pubblico esiste la
figura del dottore erborista, e là dove sono previsti dei posti di
lavoro, a tutt’oggi basta esibire un pezzo di carta attestante la
frequenza di un qualsiasi corso Radio Elettra di qualche settimana.
Nonostante la laurea, un dottore erborista non può vendere una tisana o
una crema o un profumo o un liquore a base di erbe officinali di sua
creazione, perché la legge - mai modificata - ne dà l’esclusiva ai
farmacisti (potenza delle lobby!).
La presa per i fondelli di tanti giovani si basava, ancora una volta,
sullo stile americano della specializzazione, per cui un Nobel in
medicina riuscì a dire delle castronate planetarie sul raffreddore, che
neanche un nostro studente del secondo anno avrebbe mai detto.
Tutto sommato era meglio quando l’università italiana dava una forte
base culturale, riconosciutaci nel mondo intero. Oggi - come allora -
la scuola è totalmente avulsa dal mondo del lavoro che non ha mai
voluto rapportarsi con la scuola, ma in più i dottori di oggi di fatto
non sono più riconosciuti come detentori di cultura. Però per la prima
volta il governo ha fatto la "riforma".
(da http://www.agoravox.it/)
redazione@aetnanet.org
|
|