La necessità della riforma radicale del sistema secondario nasce dalla
constatazione dell’ormai evidente fallimento dell’attuale architettura, nella
quale le sperimentazioni cominciate negli anni ’90 hanno moltiplicato a
dismisura il numero degli indirizzi, licealizzato progressivamente il sistema
degli istituti tecnici, aumentato in modo spropositato il numero delle materie e
delle ore di lezione – e conseguentemente degli addetti –, ma abbassato
inesorabilmente la qualità dell’offerta formativa. I risultati di questa
anarchia sperimentalistica sono ormai drammaticamente sotto gli occhi di tutti,
con un elevatissimo tasso di dispersione tra i 15 e i 19 anni, disaffezione
dilagante e livelli di apprendimento scadenti, che ci pongono a fanalino di coda
non solo dell’Europa.
Nel nuovo quadro istituzionale disegnato dalla modifica del Titolo V della
Costituzione, la scelta di sistema della legge 53/03 è stata quella di un ciclo
secondario articolato in due percorsi: quello liceale e quello dell’istruzione e
formazione professionale. Il potenziamento del sistema dell’istruzione e
formazione professionale secondaria e superiore, in collegamento sinergico con
le imprese e il territorio, e l’attribuzione effettiva a questo sistema di
dignità culturale ed educativa pari a quella del sistema dell’istruzione liceale
e universitaria costituiscono gli aspetti qualificanti e irrinunciabili della
nostra azione riformatrice che la legge delega ha pienamente sancito.
La presa di distanza da quanto scritto nella bozza di decreto attuativo
presentata dal ministro Moratti a metà gennaio nasce per noi dalla constatazione
della presenza nel documento di alcune significative discordanze con la legge
53/03, che ci sono sembrate tali da arrivare a vanificarne i propositi di
cambiamento e di innovazione. Sebbene un’esponente dell’opposizione su queste
stesse pagine l’abbia definito, con una frase davvero di pessimo gusto, “rissa
da pollaio della maggioranza”, il confronto sulla bozza è stato civile e di alto
profilo; ben diverso da quello messo in campo da certe lobbies preoccupate più
della difesa corporativa dei propri interessi particolari e delle rendite di
posizione o da certe formazioni politiche tormentate da nostalgie ideologiche e
vecchi stereotipi politici.
La legge 53/03, nell’ultima parte del suo art. 2, ha delineato un sistema di
istruzione e formazione professionale moderno e rispondente ai parametri
europei, ipotizzato in modo tale da comprendere tutta l’offerta dei titoli
tecnico-professionali; ha previsto un sistema che deve svilupparsi naturalmente
nel settore formativo terziario con la previsione di percorsi stabili di
formazione tecnico-professionale superiori non accademici, in osservanza delle
raccomandazioni dell’OECD e la dichiarazione di Bologna del ’99. Spostare, come
fa la bozza di decreto, il baricentro del ciclo secondario tutto sul versante
liceale, con l’inevitabile de-professionalizzazione dei diplomi tecnici e la
conseguente esclusiva propedeuticità al proseguimento degli studi, accentuerebbe
i fattori di crisi del nostro sistema educativo e renderebbe vana la domanda del
sistema produttivo. Riunire, infatti, in un unico canale liceale l’attuale 42%
di utenza liceale e il 37% di quella degli istituti tecnici destinerebbe quasi
l’80% dei giovani a percorsi non professionalizzanti, marginalizzando il
restante 20% in una posizione residuale. Al contrario, il sistema
dell’istruzione e formazione professionale deve assumere una chiara connotazione
autonoma per essere in grado di sostenere la crescente domanda che viene dal
mondo del lavoro e delle professioni; occorre quindi abbandonare la vistosa
subalternità in cui viene posizionato dalla bozza attraverso la sua palese
omogeneizzazione ai percorsi liceali e restituire all’IFP l’identità di sistema
dotato di specifiche e molteplici terminalità professionalizzanti.
So bene che la proposta della sinistra su questo punto è totalmente divergente,
preferendo essa l’utopia di un “universo perfetto” in cui tutti studiano le
stesse cose (quelle che vuole il partito), percorrono ordinati tutti le stesse
strade (luminose e promettenti, come ipotizzano gli ingegneri dell’ideologia) e
raggiungono tutti gli stessi risultati (quelli preordinati dal potere); la
massificazione le appare l’unica strada per garantire pari opportunità a tutti.
Ma la realtà è un’altra cosa, e i fatti inerenti la scuola italiana di questi
ultimi tempi, con l’alto tasso di abbandono scolastico e la diffusa
dequalificazione prima ricordati, stanno testardamente a testimoniarlo.
Altro motivo di preoccupazione viene dalla constatazione di come la bozza di
decreto comprima sia gli spazi di autonomia reale delle scuole, sia la libertà
di scelta di studenti e famiglie. È evidente dai quadri orario e dagli OSA dei
licei presentati dall’Amministrazione: emergono, ancora di più rispetto
all’attuale, un’estrema parcellizzazione disciplinare e tetti orari troppo alti,
con ripartizioni rigide, tali da costringere la flessibilità addirittura al di
sotto delle attuali possibilità consentite dall’autonomia scolastica. Noi
chiediamo, invece, che venga pienamente attuato il dettato costituzionale che si
fonda sull’autonomia delle scuole e sul principio di sussidiarietà verticale e
orizzontale: la trasformazione del nostro sistema educativo in un sistema più
libero che coniughi la libertà d’insegnamento con le libertà di apprendimento e
di scelta educativa delle famiglie, oltre a valorizzare le migliori
professionalità presenti nel mondo della docenza e della dirigenza.
In particolare, ci sono alcuni punti critici che risultano dirimenti ai fini del
mutare della nostra posizione rispetto al progetto di riforma dei licei:
1. deve essere individuato un nucleo essenziale di discipline che connoti la
dimensione liceale, riducendone il numero nel quadro orario obbligatorio,
ampliando lo spazio per le attività opzionali e facendo emergere in maniera
esplicita la dimensione di propedeuticità degli studi liceali per il segmento
terziario, accademico e non;
2. deve essere arricchito il repertorio delle discipline opzionali obbligatorie;
3. deve essere ridotto in maniera consistente il numero di indirizzi del liceo
tecnologico; così com’è stato proposto, rappresenta infatti una
razionalizzazione delle sperimentazioni esistenti e risulta un insostenibile
ibrido tra licealità e terminalità;
4. occorre prevedere un’organizzazione degli insegnamenti per raggruppamenti di
aree disciplinari, con quote orarie riferite su base annuale e biennale,
indicando una fascia di oscillazione oraria per le singole discipline entro cui
le scuole organizzano i piani di studio personalizzati;
5. deve essere riformulata la proposta relativa alle attività motorie;
6. latino, filosofia, diritto, fisica e chimica debbono essere inserite nelle
attività opzionali obbligatorie rispettivamente nei licei ove queste discipline
non sono previste o sono presentate con un orario ridotto.
Perché, poi, tutto ciò risulti realizzabile è necessaria un’autonomia vera, in
cui lo Stato e le Regioni definiscono gli obiettivi e indicano i possibili
percorsi, ma sono poi le istituzioni scolastiche e formative a stabilire come
raggiungerli. Una effettiva ripartizione delle competenze e delle responsabilità
che deve vedere attori tre soggetti di pari dignità: Stato, Regioni e
istituzioni scolastiche e formative, che devono gestire il sistema in un
rapporto “virtuoso”. È così che funziona nella maggior parte dei Paesi europei,
non vedo perché non possa essere così anche da noi.
Vorrei fare un ultimo rilievo, con riferimento agli articoli 25 e 26 della bozza
del decreto legislativo. Lì viene correttamente individuata la Conferenza
Stato-Regioni quale luogo deputato a programmare modalità e tempi della
costruzione del sistema educativo di istruzione e formazione. Si inizia in tal
modo ad introdurre – a fronte di una lunga tradizione di politica scolastica
centralistica e statocentrica – un elemento di effettiva libertà e di piena
valorizzazione delle diverse autonomie (delle Regioni, delle Province ed ancor
prima delle stesse istituzioni scolastiche). Ritengo che tali elementi
potrebbero acquisire maggiore rilievo se il decreto facesse una più puntuale
distinzione tra il piano degli ordinamenti (relativo alla costruzione analitica
dei percorsi) e il piano gestionale (inerente al trasferimento delle istituzioni
e delle relative risorse), tra livello della “soggettività” delle istituzioni
che erogano i servizi formativi e tipologia dei percorsi erogati; anche
attraverso una più attenta previsione di gradualità della fase di transizione
verso un sistema effettivamente coerente con la nuova articolazione dei poteri
previsti dalla riforma del titolo V della Costituzione.
In chiusura, mi preme fare alcune precisazioni, prendendo spunto dal recente
intervento su questa Rivista del responsabile scuola dei DS, Andrea Ranieri.
La ripartizione tra competenze statali e delle Regioni sulle istituzioni del
secondo ciclo deriva da una precisa scelta dettata dalla Costituzione con la
modifica del Titolo V operata nella precedente legislatura. Lungi dall’essere
un’opinabile interpretazione di una certa parte politica, è una disposizione che
ha il suggello di una sentenza della Corte costituzionale (la n. 13/2004) la
quale chiarisce, senza possibilità di ulteriori dubbi e strumentalizzazioni, la
ripartizione: allo Stato i licei e alle Regioni l’istruzione e formazione
professionale. Non appartiene perciò alla legge 53/03 quella che Ranieri
definisce “idea schematica e tranciante della divisione delle competenze tra
Stato e Regioni”; e, se mi permette, è lui ad essere in contraddizione, non la
maggioranza.
È del tutto strumentale e demagogico da parte di Ranieri denunciare l’aumento
“del tasso di incertezza di genitori e studenti” – promosso e fomentato dalla
CGIL in questi anni –, della “demotivazione al lavoro degli insegnanti” –
frustrati dall’appiattimento impiegatizio della funzione voluta dai sindacati –
e dello “svuotamento della scuola dell’autonomia”, rispetto al quale dimentica
che ancora oggi nessuna vera autonomia è davvero iniziata. Forse farebbe bene
anche a valutare, una volta tanto, le conseguenze della campagna mistificatoria
che la sinistra ha portato avanti in questi anni nella scuola, cinicamente
scelta come terreno privilegiato della politica per il potere. E farebbe bene
anche a rivedere un po’ criticamente frasi retoriche come “separazione precoce
dei percorsi” e “divisioni classiste”, vecchi stereotipi ideologici che si
infrangono contro la realtà di una società ormai molto diversa dal dopoguerra.
Sarebbe più onorevole per un uomo di cultura com’è Ranieri interrompere questo
fil rouge della mistificazione, che ha contraddistinto purtroppo tutta la
politica della sinistra di questi ultimi anni sulla scuola, e scendere sul piano
pragmatico e responsabile di un serio confronto sulle questioni reali.
On. Mario Mauro