LA SCUOLA IN FRANTUMI
Data: Sabato, 12 giugno 2010 ore 12:11:08 CEST
Argomento: Comunicati



Fin da subito, però, voglio sottolineare come questa progressiva diserzione delle istituzioni dal terreno dell’ educazione degli italiani misuri puntualmente i suoi esiti nelle condizioni penose in cui versa la preparazione dei nostri studenti.

Non si tratta solo di performance scolastiche scadenti; questione pure tutt’altro che trascurabile. La scuola è letteralmente andata in pezzi; tanti quanti sono gli insegnanti.



La scomparsa dei programmi scolastici, per fermarci all’ aspetto più macroscopico dell’ intera vicenda, la loro sostituzione con semplici indicazioni nazionali, tanto ambiziose nella vastità enciclopedica quanto generiche e povere di cultura, ha determinato una situazione nella quale di fatto ogni insegnante è libero di fare quello che gli pare.

Ora, è bene intendersi sul significato concreto di questo tipo di libertà. Autorizzando componenti minoritarie nella scuola a ritagliarsi programmi sulla misura delle proprie convinzioni (i curricoli di istituto e di scuola), le indicazioni nazionali hanno alimentato pericolose contrapposizioni tra i docenti, che per la prima volta si sono divisi su quello che dovevano insegnare e sulla cornice ideale che dava senso al loro insegnamento: la cittadinanza, il locale contro il globale, il dialogo interculturale, la legalità.

Nei documenti della scuola degli ultimi anni, la cultura comune è stata ridotta ad identità culturale dello Stato, una componente tra le altre, distinta esclusivamente dal peso che le indicazioni gli garantivano in termini di ore.

Questa delegittimazione della cultura unitaria ha consentito di concepire le scuole come altrettante postazioni ideologiche. Badate bene, non si tratta delle sacrosante convinzioni ideali di ogni maestro, che nutrono e non impoveriscono il suo magistero, anzi. In gioco è altro. Nella scuola dei nostri anni quello che si insegna ha smesso di significare il contributo alla costruzione della sfera dell’ autonomia personale del singolo. È stato invece subordinato al perseguimento di un tipo ideale: il perfetto democratico, l’ individuo tollerante, il pacifista.

Ora, la bontà e anche l’ auspicabilità di questi traguardi (chi vorrebbe educare un razzista guerrafondaio?) non appartengono alla scuola, la quale deve mettere le persone in grado di procacciarsi la buona vita, ma non può prescrivere, in nome delle convinzioni dei singoli o dei gruppi, i contenuti di questa stessa vita.
La cultura serve l’autonomia delle persone; le buone intenzioni le iscrivono dentro progetti pensati da altri.





In questo spostamento di pesi, dalla cultura all’ ideologia pedagogica, il sistema scolastico si è trasformato in un aggregato frammentario di parti discrete, tenute insieme da un vincolo unitario debole (le famigerate educazioni, un’ accozzaglia pretestuosa di temi il cui elenco è dettato solo dalle mode culturali del momento). Così la scuola cambia radicalmente la sua funzione: non serve più ad istruire, ma diventa un servizio educativo della comunità.

Le ricadute dell’ abolizione dei programmi nazionali tuttavia si misurano su un terreno meno militante di questo.

Per fare fronte alla confusione di un decennio nel quale in pratica ogni ministro della Pubblica istruzione ha di fatto cambiato le carte della scuola italiana, gli insegnanti si sono affidati alle uniche due guide sulle quali potevano effettivamente contare: i libri di testo e la loro esperienza.

Le indicazioni erano farraginose, pagine e pagine sprecate per illustrare cornici ideali che rappresentavano solo le convinzioni di chi le aveva stilate. Che dovevano fare gli insegnanti? Bisognava ricominciare ogni volta da capo? In questi anni se ne sono incaricati gli editori: i libri di testo hanno tradotto in schemi concreti e in modelli di lezione la nuova didattica. E quando non si sono affidati a loro, i maestri hanno continuato a fare quello che sapevano fare e avevano sempre fatto.

Ora, i libri di testo ripetono pedissequamente le indicazioni del centro e dunque ne riproducono anche la povertà culturale, generando un ciclo al ribasso al quale non si è prestata la dovuta attenzione. Soprattutto sul versante della storia e della geografia e dell’ insegnamento dell’ italiano e della matematica, gli allievi escono dalle scuole elementari con un bagaglio di conoscenze povero e che alla fine del primo ciclo ha generato un ritardo sul piano dell’ apprendimento dei saperi di base che molti non recupereranno più nel corso della carriera scolastica.

D’altro canto, l’esperienza degli insegnanti se tutela il principio costituzionale della libertà dell’ insegnamento (contro il tono prescrittivo delle nuove indicazioni), in mancanza di un minimo culturale comune chiaramente enunciato espone gli allievi all’ alea del caso.

Si spezza così, senza parere, un vincolo classico dei sistemi d’ istruzione: una norma chiara di quello che si deve insegnare vale per i maestri bravi e per quelli che si limitano a fare il loro mestiere. I primi non ne sono mortificati nella loro bravura, gli altri sono messi in grado comunque di assicurare un minimo culturale comune.

Era una visione realistica della scuola e delle forze in campo. Le si è voluto sostituire un progetto velleitario, che agli uomini come sono preferisce i professionisti dell’ educazione, che poi altri non sono che gli stessi insegnanti come però i cosiddetti esperti pretendono debbano essere.

Gli esiti sono facilmente immaginabili: la disuguaglianza, sempre tanto temuta a parole, si produce così non sul terreno dell’ accesso formale all’ istruzione ma delle disparità educative: in assenza di un orientamento unitario e vincolante, il rischio educativo sta tutto dalla parte di chi meno è attrezzato per sostenerlo, le famiglie e i loro bambini.



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