La proposta Gelmini di unire materie diverse è priva di ogni logica culturale
Data: Giovedì, 15 aprile 2010 ore 10:49:31 CEST
Argomento: Redazione


L'articolo di Francesco Erbani (la Repubblica, 31 marzo 2010) sulla possibile «Scomparsa dell'italiano» negli insegnamenti universitari («rischiano di sparire i dipartimenti specifici dove studiare Petrarca o Montale»), è sacrosanto, e lo condivido pienamente, comprese le testimonianze ivi riportate. Ma... ma esso descrive solo una delle punte possibili di un iceberg di dimensioni assai più gigantesche e dalle conseguenze più catastrofiche.
Cercherò di dire molto sinteticamente di una materia assai complessa. Il Dpr 382, - che regolamenta l'organizzazione degli studi universitari, risale ai primi anni '80 ed è, si badi, ancora del tutto in vigore - prevede la seguente ripartizione dei compiti:

1) ai Dipartimenti, organismi mono- o, a seconda dei casi, pluri-disciplinari, compete in maniera esclusiva la promozione e l'organizzazione della ricerca;

2) i Corsi di studio si occupano di singole branche del sapere secondo un'ottica didattica e in funzione della formazione di buoni profili professionali;

3) le Facoltà sono organismi più vasti, che mettono in rapporto fra loro branche diverse del medesimo sapere, secondo ottiche più tradizionali (giurisprudenza) o più innovative (Scienza delle comunicazioni).

Il sistema aveva bisogno di correzioni e di ammodernamenti? Tutt'altro che da escludere.
Ma ecco la sorpresa. Una norma contenuta nella cosiddetta riforma Gelmini, ancora in discussione, prevede che per formare un Dipartimento - o, peggio, per mantenerlo in vita - ci vogliano fra i quaranta e i cinquanta docenti.
È così che si apre la rincorsa forsennata ad accorpamenti fra Dipartimenti più piccoli che rendano possibile una forma (purchessia) di sopravvivenza.
Capite la finezza della misura?
Siamo in materia di ricerca, anzi di ricerca universitaria: la materia più delicata per lo sviluppo civile, culturale ed economico della Nazione.
E la regola, preventiva e preliminare, non riguarda i criteri, le opportunità e l'efficacia dello «stare insieme» per «ricercare insieme» una determinata materia dello scibile: ma il fatto di essere, puramente e semplicemente, in quaranta-cinquanta (meglio però, in pratica, in sessanta, così si fa fronte preliminarmente alla piaga dei pensionamenti).

Gli effetti nefasti sono due:

1) le nozze obbligate producono parti irriconoscibili e sterili;

2) la scomparsa di organismi gloriosi (alla Sapienza, ad esempio, non ci sarà più un Dipartimento di Filologia classica, organismo dal passato straordinario e dal presente più che ragguardevole, perché i filologi classici, poveretti, da soli non raggiungono il sacro Numero).

Ma non basta.
Qualcuno vuole attribuire ai Dipartimenti anche le funzioni didattiche (già succede alla Sapienza di Roma).
Allora, come osserva Erbani, in conseguenza delle matematiche sommatorie, si potranno avere dei sedicenti Dipartimenti di Lettere antiche e moderne.
Questo, dal punto di vista della ricerca, non vuol dire niente: infatti, non è risalendo così rozzamente dal particolare al generale che si possono meglio individuare temi e metodi di un'esplorazione scientifica più approfondita.
Se vi aggiungete le funzioni didattiche, avrete la mirabile quadratura del cerchio: Dipartimenti tali e quali i Corsi di studio.
Così, con mezzi molto semplici, si porta un attacco irreversibile alla ricerca italiana. In nome di che cosa?
Ma, ovviamente, in nome del risparmio. Si conferma così, in questa come in molte altre occasioni, che il Ministro Gelmini è una povera, indifesa e incapace prestanome del SuperMinistro Tremonti, il quale, con una cifretta, mette in ginocchio il mondo universitario italiano, che lui ostentatamente odia.

Un momento: non avevamo detto che la riforma Gelmini è ancora in discussione?

Si apre qui il secondo capitolo, il più penoso, di questa inverosimile faccenda.
Sì, è vero la riforma Gelmini è ancora in discussione.
Nel frattempo, però, i Rettori di alcune delle principali Università italiane hanno deciso di anticiparla, dando inizio al suddetto processo di accorpamento dei propri Dipartimenti.
I Rettori, fedeli interpreti della volontà governativa, contano sul fatto che, in questa fase, gli accorpamenti fra Dipartimenti avvengano per scelta (nella sostanza fortemente voluta e costrittiva, ma formalmente libera e volontaria) da parte degli stessi professori universitari interessati.

Ultimissimo capitolo.
Trattandosi di questioni che attengono alla possibilità maggiore o minore di svolgere ricerca, cioè di essere buoni ricercatori, buoni uomini di cultura, i professori universitari avrebbero dovuto fare le barricate.
Invece si sono messi all'affannosa ricerca dei partners meno indigesti: se matrimonio d'interesse dev'essere, almeno il muso dello sposo o della sposa non sia troppo orripilante.
Se infine si aggiunge, come giustamente fa Erbani, che in seguito all'illuminata ispirazione del SuperMinistro Tremonti, su ogni cinque professori universitari pensionandi ne rientrano uno o al massimo due, un de profundis sembrerebbe la canzonetta più allegra per accompagnare le sorti prossime future della Università italiana.

Alberto Asor Rosa
la Repubblica 14.4.2010






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