«Il mio XXI secolo»
Data: Sabato, 20 marzo 2010 ore 10:00:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


Non si possono impegnare i fondi di uno Stato soltanto nella produzione: si devono creare infrastrutture che garantiscano un futuro a tutti gli strati sociali». Lo sostiene Amartya Sen, economista indiano e Premio Nobel per l'Economia nel 1998. Secondo il docente, che oggi insegna presso la Harvard University, «non è corretto neanche fare una graduatoria di Paesi "buoni"e Paesi "cattivi". I numeri possono dire qualunque cosa. Quello che invece è importante è che la comunità internazionale decida di lavorare insieme, anche se ognuno con il proprio modello, per garantire la sopravvivenza del globo e uno sviluppo sostenibile ». Questo perché, conclude, «non avvenga domani per l'Africa quello che sta avvenendo oggi in Cina».

Alcuni Paesi in via di sviluppo, che hanno avuto una crescita record, non hanno saputo tenere conto delle conseguenze sanitarie e sociali del modello industriale di produttività. Come si può stabilire un equilibrio migliore? Si tratta innanzitutto di capire che lo sviluppo non si limita solo alla semplice crescita economica. Lo sviluppo consiste anche nell'aumentare il benessere della gente e nell'ingrandire il campo della loro libertà. È quello che chiamiamo lo sviluppo umano. E si rischia di passare accanto a questo obiettivo, e quindi evitarlo, se si rimane con gli occhi fissi sulle sole cifre del Pil e del reddito nazionale. Il secondo punto che vorrei sottolineare è che lo sviluppo umano può essere rapido anche in caso di crescita lenta. Politiche sociali adeguate - in materia di sanità, di istruzione e di ambiente - contribuiscono a migliorare considerevolmente la qualità della vita della popolazione, anche in un contesto di crescita debole. Questo tipo di misura non è fuori dalla portata dei Paesi poveri, anzi. La realizzazione dei servizi sociali necessita di molto personale. Tuttavia questi Paesi dispongono di un'abbondante mano d'opera e a buon mercato. La Cina, lo Stato indiano del Kerala, il Costa Rica (per citarne solo alcuni) si sono dotati di sistemi di insegnamento e di assistenza performativi molto prima di lanciarsi sul piano economico. Sarebbe sbagliato pensare che senza la crescita non ci sarebbe sviluppo umano possibile.

Secondo lei, è possibile conciliare crescita duratura e sviluppo umano? E quale ruolo dovrebbero avere i governi dei Paesi in via di sviluppo nella ricerca di questo equilibrio? Tutto dipende da quello che i governi fanno della crescita. Alcuni sostengono che non bisogna fare niente e che basta aspettare. È vero che con la crescita la popolazione vede aumentare il proprio reddito, il che ha come effetto automatico di creare nuovi bisogni in termini di sviluppo umano. Questo effetto è tuttavia limitato per due ragioni: gli aumenti dei redditi riguardano solo alcune categorie della popolazione e non ci sono collegamenti diretti fra l'aumento dei redditi privati e la richiesta di strutture sociali come le scuole o gli ospedali.

Come si può uscire da questo dilemma? In due modi: riducendo le disparità di redditi e, soprattutto, decidendo attraverso politiche volontaristiche di destinare i frutti della crescita allo sviluppo umano. Occorre che lo Stato utilizzi le risorse create dalla crescita per costruire ospedali, migliorare i servizi sanitari, aumentare il bilancio della sanità, sviluppare scuole, università e trasporti pubblici (ferrovie e strade). Di solito, in un'economia moderna, la crescita permette di riempire più velocemente le casse dello Stato piuttosto che aumentare il reddito nazionale. In India per esempio, quando il tasso di crescita raggiungeva il 6, 7, 8, o 9 per cento all'anno, le entrate pubbliche aumentavano dell'8, 9, 10 o 11 per cento. Occorrerebbe che queste risorse supplementari fossero destinate allo sviluppo. Il che permetterebbe, allo stesso modo, di attenuare le disparità di reddito nella misura in cui queste si manifestano con disuguaglianze nell'accesso all'istruzione e alle cure mediche.

Quali sono i Paesi che privilegiano la crescita a discapito dello sviluppo umano? Non è mia consuetudine dare punti a favore o contro, tanto più che si può far dire ai numeri quello che si vuole! Non ho quindi intenzione di rispondere a questa domanda. Quello che è certo è che la maggior parte dei Paesi fa fatica ad assicurare uno sviluppo duraturo attraverso politiche ambientali adeguate. Come rendere il pianeta più vivibile e più sicuro pur preservando le libertà e il benessere di ognuno? Questa è la sfida cui dobbiamo rispondere.

Cosa pensa della Cina? È consigliabile che riveda il proprio modello di sviluppo? La Cina ormai fa parte del gruppo dei grandi inquinatori. Le misure che ha realizzato per proteggere l'ambiente restano insufficienti e occorre che si dedichi alla questione più seriamente sia a livello locale che mondiale. Tuttavia, prima di puntare il dito contro Pechino, bisogna ricordare che i principali inquinatori, quelli che avvelenano il pianeta da anni, per non dire secoli, sono gli europei e gli americani. Non è una storia vecchia: ancora oggi gli Stati Uniti e l'Europa si collocano molto lontano rispetto agli altri paesi del mondo in termini di emissioni di gas serra. Certamente la Cina, come il resto del pianeta, deve interrogarsi sulla sua parte di responsabilità nel riscaldamento globale e nei disastri ambientali. In un quadro di politica mondiale di lotta contro il cambiamento climatico, i "vecchi inquinatori"devono anch'essi riconoscere un concorso di responsabilità e di costi. Precisamente devono chiedersi se non si sono accaparrati una parte sproporzionata di quelli che chiamiamo "beni comuni". Quello che crudelmente manca oggi, è un ampio dibattito pubblico su ciò che dovrebbero fare gli uni e gli altri: un dibattito che terrebbe conto di tutti i dati del problema, compresa la lotta alla povertà e la necessità di dividere fra tutti il fardello della difesa dell'ambiente. La Cina, l'India e il Brasile (così come i "vecchi inquinatori") devono pensare al posto che lasciano ai Paesi che ancora non anno avviato il loro decollo economico, come la maggior parte dei Paesi africani e un gran numero di Paesi dell'America latina e dell'Asia. Occorre impedire che domani l'Africa rimproveri alla Cina, all'India e al Brasile quello che la Cina, l'India e il Brasile rimproverano oggi all'Europa e agli Stati Uniti.

È realistico prevedere la realizzazione di un piano mondiale per combattere il riscaldamento climatico? Credo di sì, a condizione che noi ci impegniamo con intelligenza. Se tutti i Paesi a crescita rapida, a iniziare dalla Cina, continuano a svilupparsi nel loro angolo senza mettersi d'accordo sulle norme di rifiuti inquinanti, il risultato sarà catastrofico. Ma non è una fatalità: la Cina non rifiuta di riflettere sul problema, almeno per principio. Sostiene di voler porre l'accento su quei campi in cui l'Europa e gli Stati Uniti non hanno ancora elaborato una politica soddisfacente. Tuttavia è possibile coinvolgere tutti gli Stati del mondo in una riflessione aperta e globale. Una riflessione che integrerà le posizioni di ognuno: gli interessi e la responsabilità dei vecchi inquinatori (Europa e Stati Uniti), nuovi inquinatori (Cina, India, Brasile) e dei futuri inquinatori (la maggior parte dell'Africa). Questa è la strada che dobbiamo seguire non solo per salvare il mondo da una imminente catastrofe, ma anche per non condannare i più poveri a un sottosviluppo eterno.

Come incoraggiare gli Stati a considerare l'impatto sanitario e sociale di una crescita non regolamentata? Non occorre che l'incoraggiamento venga dall'esterno, ma che proceda dal normale funzionamento della democrazia. Abbiamo bisogno di un dibattito aperto e costruttivo, senza censure né intimidazioni sulle questioni importanti e non solo sulle questioni spessi frivole che riempiono i nostri giornali. Questo dibattito deve essere alimentato da un'informazione di qualità, fatta di analisi di fondo. Si è detto della democrazia che era "il governo attraverso la discussione": è questa discussione che dobbiamo instaurare per sensibilizzare l'opinione alle sfide dello sviluppo umano. Occorre intavolare un ampio dialogo pubblico sui rischi ambientali, sulle disparità economiche e sociali, sui problemi di salute e di istruzione in tutto il mondo. Già i reportage e gli articoli della stampa internazionale, gli impegni sui diritti dell'uomo, le proteste contro le disuguaglianze di opportunità a livello economico superano il quadro delle frontiere nazionali; ma la loro portata è ancora limitata e devono essere diffuso e sistematizzati. Noi non possiamo sicuramente istituire una democrazia globale sotto forma di governo mondiale (almeno non nell'immediato), ma possiamo incoraggiare un dibattito internazionale più approfondito su inquietudini e aspirazioni comuni.

Le riforme a favore dello sviluppo, dell'istruzione, dell'assistenza sociale, esigono un intervento dello stato. In quali campi può essere efficace l'iniziativa privata? Varia da Paese a Paese. Per natura, il settore privato ha come ruolo quello di generare crescita, di creare posti di lavoro, di liberare redditi e di controllare il buon funzionamento dei mercati. Le industrie pubbliche hanno funzionato correttamente solo in alcune circostanze particolari; quanto all'agricoltura collettiva, questa non ha mai dato risultati certi. Ma in alcuni campi, l'iniziativa privata resta insufficiente. È il caso della sanità e dell'istruzione in cui può solo completare l'azione dei poteri pubblici. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che questa iniziativa privata non si limita all'impresa privata a fini di lucro. Un grande numero di istituzioni cooperative e di Organizzazioni non governative (come la Grameen Bank e la Brac fondata in Bangladesh) offrono una terza via fra i meccanismi del mercato orientati verso il profitto e l'economia diretta. Tutti, prima o poi, si faranno la domanda: «Cosa posso fare per migliorare la situazione sociale?». La risposta non consiste sempre nel creare un'impresa privata. Essa sta probabilmente anche nello sviluppo del settore cooperativo. Bisogna avere lo spirito aperto e capire che esistono mille modi di cambiare il mondo sfortunato in cui viviamo. Nella sua opera principale Un nuovo modello economico: sviluppo, giustizia, libertà descrive i benefici indotti del capitalismo e sottolinea che al di là dell'interesse individuale, la ricerca del profitto può beneficiare all'insieme dell'economia.

Lei pensa che la globalizzazione così come la divisione internazionale del lavoro che conduce alcuni paesi a diventare veri e propri "laboratori del mondo"possa rimettere in causa questi schemi? Non lo so. Non si può dividere il mondo in maniera rigida fra coloro che producono e coloro che consumano. Ogni Paese deve poter partecipare allo sviluppo mondiale. Ed è migliorando l'accesso all'istruzione, alla sanità e alla sicurezza sociale che si potrà influire sulla natura della produzione economica e provocare le evoluzioni sociali necessarie. Vedere dei Paesi diventare i laboratori del mondo mentre altri rimangono indietro, per me è uno scenario da incubo, per quanto sia realizzabile e per fortuna non è questo il caso. Dobbiamo lavorare insieme, forse in modi diversi, ma insieme.   

di Brigitte Adès Liberal







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