Alfio Patti: “Tra ciuri d’aranci e spini santi”
Data: Sabato, 06 marzo 2010 ore 07:00:00 CET
Argomento: Istituzioni Scolastiche


Tra ciuri d’aranci e spini santi
(La storia della donna siciliana nei cunti e canti di Alfio Patti)

Questo il titolo di uno spettacolo tutto dedicato alla donna siciliana. Ho iniziato pensando agli occhi di una ragazza che spera, come è giusto che sperino tutti i giovani, ad una vita ricca di emozioni e di felicità.
La performance inizia con i  primi innamoramenti e le canzoni ascoltate dietro la finestra portate dal fidanzato che le propone una serenata. Per questo eseguo, a pieno petto e in la minore, i brani “Finestra” e “Tu dormi” per descrivere come può una donna avere ai propri “piedi” il suo uomo disposto a tutto pur di avere un suo sorriso o un suo bacio.
Con i brani “Sì e no” e “Comu l’unna” descrivo le arti seduttrici e l’imperscrutabilità dell’umore femminile che è spesso mutevole. Quindi il sogno della donna, fino al secolo scorso, il matrimonio. Il matrimonio, unica ambizione e meta cui una ragazza, soprattutto del popolo, poteva aspirare.
Il fatto di non avere pretendenti la tormentava , vedi “Si maritau Rosa”, tutte le sue amiche si erano sposate tranne lei. Naturalmente, i brani e il percorso sono proposti in tono critico-ironico e non nostalgico o evocativo, non poteva essere diversamente considerato il fatto che la donna fino al secolo scorso non aveva conquistato l’emancipazione che ora possiede.
Cabarettando sul problema dei figli maschi e femmine, sulle preferenze dei genitori, protese verso il maschio che era spesso “beddu e c’â nocca” mentre “su è fimminedda a cuasetta si fa”, raggiungo la “fuitina”, momento magico, pregnante d’amore per ritrovare la stessa ragazza, poi, schiacciata dal peso di una famiglia, invecchiata precocemente. Lo spettacolo procede con l’intraprendenza della donna, e qui propongo brani come “Ciccio” e “Sonnu d’amuri” nei quali è la donna a “scuncicàri l’omu” e a chiederne, nel caso estremo della poesia Ciccio (di Ciccio Boley, anni Trenta a Catania) “lo divino sgricciu”.
Lo spettacolo dura un’ora e mezza circa ma i momenti più toccanti si raggiungono con  la ninna nanna di “Terra ca non senti”, nella quale la donna lasciata sola perché il marito è partito, emigrato “annàca” il proprio figlio per farlo addormentare, maledicendo il giorno in cui è nata: “Malidittu ddu mumentu ca grapivu l’occhi nta stu ’nfernu”.
La vita di una donna sola, giovane, che ha il marito emigrato non è facile. Tutto ricadeva sulla donna, l’educazione dei figli, l’economia da gestire, l’onore da preservare: “Malidittu cu t’inganna, cu mi tenta cu la vuci e a fratellanza”, le insidie erano sempre in agguato, anche in nome dell’amicizia, e allora lei si ribella con un grido soffocato “Terra ca non senti / e non voi capiri/, ca non dici nenti / vidennumi muriri. / Terra ca non senti cu voli partìri / e nenti ci voli pi farli turnari” e chianci chianci... ninna oh / oh, oh, oh”.
La denuncia sociale, poi, è sottolineata dal brano di Rosa Balistreri “Cuntu e cantu” per non perdere la memoria, appunto, “ppi non perdiri lu cuntu” dove si denunciano le infanzie rubate “la me ’nnuccenza si la sparteru ’n tanti” grida Rosa che ha avuto un’infanzia difficile ed è stata anche in galera per aver accoltellato il marito: “Non è l’amuri ca crisci ad ogni banna / ma lu favuri ca sparti cu cumanna” e Rosa lo sa, come lo ha saputo sempre la donna siciliana che doveva ingoiare rospi quanto una casa per  soffocare tutto nel silenzio “E’ lu putiri c’afforza li putenti / è lu silenziu c’ammazza li ’nnuccenti”.
Altra denuncia sociale  contro il “ratto” e il successivo matrimonio riparatore è rappresentata da Franca Viola, alcamese che per la prima volto denunciò, nel 1965, i suoi rapitori e il violentatore che voleva sposarla, poi, con il matrimonio riparatore (art. 544 del codice penale abolito nel 1981)
Dalla rabbia alla commozione. Dalla denuncia alle grida e al messaggio di una madre che perde il figlio per mano della mafia.
Qui divento cantastorie e propongo uno stralcio del “Lamentu ppi Turiddu Carnavali” di Ignazio Buttitta, dove la madre (storia vera) Francesca Serio perde il figlio unico Turiddu ucciso il 16 maggio del 1955 a Sciara con cinque colpi di lupara in faccia. Si saprà più avanti che a commettere il delitto era stato Luciano Leggio (erroneamente scritto dai giornalisti Liggio).
A difendere la Serio è stato l’allora giovane avvocato Sandro Pertini mentre i mafiosi accusati sono stati difesi da Giovanni Leone, entrambi gli avvocati diventeranno presidenti della Repubblica italiana.
“Nisciti di li tani, morsi ammazzatu ppi lu vostru pani” grida la madre disperata appena sa dell’omicidio. Turiddu aveva difeso i lavoratori che lavoravano, allora, per un chilo di pane al giorno.
Corre come una torcia umana, si scioglie i capelli che aveva raccolti a “tuppu” e si apre il “pitturali” quasi a mostrare quel seno dove Turiddu aveva allattato.
Il marito di Francesca era già morto. La donna rimane sola; sola due volte se la solitudine, come diceva Falcone, è ciò che uccide di più.
Arrivata davanti al corpo del figlio morto, sotto la cui testa era stata messa una pietra per cuscino, la donna, forte, disperata, arraggiata, ma supplichevole, prega il carabiniere di concederle di poggiare il proprio petto sul cuore del figlio per lavargli le ferite con le lacrime. Il carabiniere la respinge, lei risupplica “Carrubbineri su si’ cristianu e non hai lu cori di cainu / fammi ’ncugnari ca cci levu chianu / ’sta petra c’avi misa ppi cuscinu”.
Poi, dopo aver speso tutte le sue forze in una poesia che solo Buttitta poteva scrivere, si ravvede e pensa di riprendersi il figlio che aveva partorito; di riportarlo dentro il ventre, sposandone le idee e si erge ad amica e compagna della sua vita nello spirito. Strappa la bandiera e grida il suo messaggio; nello stesso gesto che vediamo nei dipinti delle grandi rivoluzioni dove una donna fra la pugna erge una bandiera che in Francia era della rivoluzione e in Italia fu del Risorgimento.
Insomma, sentire lo spettacolo è una cosa, descriverlo su questa tastiera àtona e fredda è ben altra cosa.
Sicilianamente
Alfio Patti








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