Quando l'amore aveva altri tempi d'amore
Data: Domenica, 14 febbraio 2010 ore 09:16:55 CET Argomento: Opinioni
Quando la festa degli innamorati non esisteva, di San Valentino si
ignorava tutto e l’otto marzo era un giorno come un altro: da
santificare se di domenica, di lavoro se d’altro dì della settimana;
l’amore aveva altre regole e il ruolo delle donne era scandito dal
tempo dei secoli che aveva scavato nella morale contadina solchi
precisi per ciascuno e da ciascuno accettate come legge inviolabile.
Molto spesso perfino il primo bacio sulle labbra la donna lo riceveva
la prima notte di matrimonio, non così l’uomo la cui libertà sessuale
spesso la sfruttava in luoghi assai pruriginosi, conosciuti
generalmente durante il servizio militare. D’altra parte, nel mito
greco, Giove gioca a bocce un po’ con tutte le donne, dee e no, che gli
piacciono e che gli capitano sotto tiro, mentre le Sante, nell’era
cristiana, stanno un passo indietro rispetto ai Santi le cui tentazioni
sono sempre un po’ più vigorose e quindi più martirizzanti. Ci
raccontava la mamma, sul cui volto la malattia aveva impresso rughe più
profonde, riti che sembravo usciti dal medioevo se non fossero invece
d’una cinquantina d’anni fa, appena poco prima del boom economico e
subito dopo la riforma agraria a seguito della occupazione delle terre.
Due foto ormai ingiallite di un matrimonio del 1948 furono l’occasione
per chiederle di quel tempo in cui l’amore non si confrontava con la
Tv, né raccoglieva modelli tra le dive, né inseguiva i calendari e le
scadenze: cosa accadeva dopo la cerimonia e dopo ancora?
E lei ci raccantò.
A conclusione della cerimonia in Chiesa, ci si ritrovava tutti a casa
per lo più della sposa (del ristorante si aveva lontanissima idea) dove
erano pronti calia e gallette zuccherate, di varia foggia e formato, e
pure fave abbrustolite e talvolta biscotti che venivano accompagnati da
vino e rosolio. Un solo vassoio, il tabarè (di camilleriana memoria e
da cui deriva forse l’offensivo tabbarano), conteneva i pochissimi
bicchierini che dovevano servire per tutti gli invitati; e nel bere
forzoso nello stesso bicchiere non c’era affatto senso di schifo.
Tramite un piattino, che era dunque una sorta di unità di misura, le
calie venivano versate dentro ai fazzoletti stesi dagli ospiti per
accogliere il più possibile ciò che solo in quelle circostanze si
mangiava gratis. Usciti gli estranei ai parenti e agli amici più
stretti veniva offerto il pranzo: maccheroni caserecci o talvolta pure
pasta di produzione industriale, forestiera, comprata apposta per la
grande occasione in uno dei due negozi del paese.
La pasta era condita con sugo di carne dentro la madia, la maidda,
aiutandosi nell’operazione per lo più con le mani e con le mani
talvolta alcuni mangiavano, per fare un po’ di allegria ma pure per
spegnere fame antica. Ma era pure gradito il sugo di coniglio o di
tacchino o di gallo (non di gallina per le uova) perché erano animali
reperibili non già dal macellaio, che si doveva pagare, ma nel fienile
accanto all’abitazione principale o direttamente nel basso che molte
famiglie dividevano regolarmente con la soma, quando c’era. I dolci
erano generalmente fatti dalla mamma e dalle zie della sposa e il vino
era rigorosamente locale con l’eccezione rara di qualche bottiglia di
Marsala o di vermut. Solo i parenti e gli amici stretti partecipavano
alla festa che nel tardo pomeriggio si concludeva, con sicuro sollievo
degli sposi che con ogni probabilità non vedevano l’ora di rimane soli
e consumare quanto si erano impegnati a condurre, nella buona e nella
cattiva sorte.
Raccontava ancora la mamma che nel suo paese, a San Cono, era in uso
dare alla coppia il giorno dopo il matrimonio la cosiddetta: “bon
luvata”, con una espressione che ricorda la levata del sole. La suocera
della sposa nella tarda mattinata si prendeva la prerogativa di portare
agli sposini, e il pensiero più impellente era rivolto al figlio, roba
da mangiare, come latte e caffè con biscotti e pure brodo di carne o di
gallina o alimenti assai proteici che consegnava al figlio davanti
all’uscio ed evitando per quanto le fosse possibile di entrare a casa
anche se una sbirciatina forse la lanciava. Tutto questo rituale per
non distogliere, con ogni probabilità, la nuora da occupazioni più
piacevoli e forse pure per non darle neanche l’alibi della pausa per la
preparazione del pranzo.
Per otto giorni circa l’usanza imponeva di non uscire, lasciando nel
mistero il parentado sulle reali capacità dell’uomo di fare per una
settimana il suo piacevole dovere e alla sposina di trovarne diletto.
Ma per otto giorni era la moglie che non doveva usciva di casa, anche
se lo volesse ardentemente e anche se gli sposini non avessero più
altre scoperte dilettevoli da fare. L’usanza imponeva questo rito anche
se non si capisce il motivo per il quale proprio alla donna era dovuta
questa sorta di clausura forzata. La prima uscita pubblica avveniva la
prima domenica utile e per andare innanzitutto a messa. Un rito
propiziatorio con cui si lavavano i peccati fatti dal corpo per la
necessità solamente procreativa. In chiesa si prendevano anche i primi
contatti col mondo esterno; qui si chiedeva la benedizione e la grazia
di avere molti figli, maschi soprattutto perché essi erano provvidenza.
Nella chiesa e durante la funzione ci si riconciliava col mondo e i
suoi bisogni meno piacevoli, come il lavoro e i doveri con la società.
E il viaggio di nozze? Non era nel vocabolario dei genitori della
nostra generazione, se si esclude quella parentesi settimanale
asserragliati in casa e pure un successivo viaggio di dovere in visita
a tutti i parenti più intimi del paese.
PASQUALE ALMIRANTE
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